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Al tempo delle Smart City dobbiamo riscoprire il senso della «vicinanza»

 
Domenico Santoro

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Domenico Santoro

Al tempo delle Smart City dobbiamo riscoprire il senso della «vicinanza»

C’è stato un tempo, però, in cui la vicinanza era la misura del mondo. L’Italia dei paesi del Sud, quella fatta di piccoli centri e comunità raccolte, non era solo una forma urbana, ma una civiltà: una civiltà costruita sulla prossimità, sulla condivisione, sull’empatia del vivere insieme

Martedì 22 Luglio 2025, 14:00

Leggendo i programmi elettorali e le linee programmatiche dei sindaci freschi di elezione, si scorgono frasi scritte per emulazione, che rincorrono la modernità attraverso la lente, ormai inflazionata, della digitalizzazione totale: smart-city, sensoristica urbana, app di comunità, sicurezza connessa, intelligenza artificiale nei servizi. Tutto sembra ruotare attorno alla promessa di un’efficienza digitale che rischia di essere tecnicamente avanzata ma umanamente arida.

C’è stato un tempo, però, in cui la vicinanza era la misura del mondo. L’Italia dei paesi del Sud, quella fatta di piccoli centri e comunità raccolte, non era solo una forma urbana, ma una civiltà: una civiltà costruita sulla prossimità, sulla condivisione, sull’empatia del vivere insieme.

Oggi quell’idea pare lontana, assorbita e sostituita dall’iperconnessione digitale, dove si è ovunque, ma veramente presenti da nessuna parte. Eppure, nei paesi della Murgia tarantina, da Grottaglie a Ginosa, passando per Massafra, Mottola, Castellaneta e Laterza, resistono le tracce di quella civiltà della vicinanza.

Scriveva di Massafra Pier Paolo Pasolini in un suo reportage del 1951: «Non c’è nulla in questo paese, come ad Alberobello, o come a Monte Sant’Angelo, a Ostuni, a Otranto, a Castro..., che incrini la purezza dell’architettura, che si è stratificata casa per casa, vicolo per vicolo, intorno alle cattedrali».   Si vedono grotte abitate fino a pochi decenni fa, stalle ricavate nella roccia, ambienti condivisi in cui la povertà era temperata dal mutuo soccorso.

A Massafra, le dimore nelle «vicinanze» costituiscono un unicum edilizio: scavate nella roccia con arnesi semplici, in forma quadrata o rettangolare, ancora oggi si conservano come monumenti silenziosi della civiltà contadina. La vicinanza, infatti, non era solo una configurazione urbanistica: era cultura. Le case erano addossate non per caso, ma per favorire l’incontro. Come in un organismo collettivo, il paese intero funzionava come una grande casa condivisa. Le porte di casa erano socchiuse, mai chiuse a chiave. Le donne sedevano sulle soglie, i bambini correvano tra le gambe degli anziani, gli uomini si fermavano a parlare ovunque. Anche il dolore era una dimensione condivisa. Ricordo con affetto Teresina, un’anziana ospite del ricovero di Massafra - come tante donne nei paesi del Sud - che ogni mattina si prendeva cura dei bambini del vicinato: li raccoglieva casa per casa e li accompagnava all’asilo.

Era un welfare spontaneo, nato dal senso di appartenenza, dalla solidarietà naturale. Non da un algoritmo. Poi è arrivata la modernità. E con essa, il desiderio di somigliare alle grandi città. Si è cominciato a costruire a scacchiera, secondo modelli freddi e ripetitivi. Gli isolati hanno sostituito le vicinanze, il cemento ha preso il posto della pietra, e le periferie sono diventate il volto grigio dell’emancipazione.

Così si è passati dalle case solidali ai palazzi chiusi. Da vivere vicini a vivere appartati -negli appartamenti. Il condominio ha preso il posto del quartiere. La scala ha sostituito il cortile, e la piazza si è trasformata in un parcheggio. La porta di casa è diventata blindata, il videocitofono un filtro della realtà. Il vicino è un’ombra, un rumore dietro il muro. La casa è diventata una fortezza, spesso vuota di relazioni. E se questa solitudine architettonica non bastasse, è arrivata anche quella digitale. I dispositivi, che avrebbero dovuto avvicinarci, ci hanno isolato ancora di più. Il dialogo è diventato commento, l’amicizia si è fatta like, la condivisione si è ridotta a notifica. Viviamo connessi ma separati, immersi in reti virtuali che escludono il corpo, la voce, l’anima.

Ecco dunque la necessità di ripensare l’urbanistica delle comunità, rimettendo al centro le relazioni tra le persone. Perché non c’è tecnologia che possa sostituire la presenza, lo sguardo, la mano che aiuta, la voce che chiama per nome. I programmi dei sindaci ripensino ad un ritorno alla vicinanza. Non come nostalgia, ma come progetto politico e umano. È l’antidoto più potente alla solitudine delle nostre città.

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