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Per un New Deal pugliese stop ai capipopolo o non sarà più «primavera»

 
Biagio Marzo

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Biagio Marzo

Per un New Deal pugliese stop ai capipopolo o non sarà più «primavera»

Da mesi il Consiglio regionale della Puglia è paralizzato. La maggioranza, già logora, è definitivamente al punto di non ritorno con le dimissioni di Alessandro Delli Noci

Lunedì 23 Giugno 2025, 14:00

Da mesi il Consiglio regionale della Puglia è paralizzato. La maggioranza, già logora, è definitivamente al punto di non ritorno con le dimissioni di Alessandro Delli Noci – assessore allo Sviluppo Economico e figura centrale della giunta – e con il conseguente ingresso in aula, al suo posto, di un consigliere di Forza Italia. È stato il colpo di grazia a una coalizione che da tempo sopravviveva tra compromessi, trasformismi e inerzia.

Michele Emiliano, protagonista assoluto della politica pugliese per oltre vent’anni – prima sindaco di Bari, poi presidente della Regione – si trova oggi alla guida di una nave senza rotta. Eppure, nei suoi anni migliori, è riuscito a entrare in sintonia con i bisogni reali dei pugliesi, dando voce a un’inedita stagione di apertura e ascolto. Ma oggi quell’«invincibile armata» ha perso dinamismo, coerenza, visione. Quella che sembrava una coalizione larga e sperimentale, in grado di tenere insieme civismo, centrosinistra e Movimento 5 Stelle, si è ridotta a un progetto esaurito, piegato su sé stesso. Il laboratorio politico messo in piedi da Emiliano, con le sue alleanze ibride e spesso contraddittorie, ha finito per implodere. L’equazione «Emiliano uguale Regione», che ha retto per un decennio, si è trasformata in un limite. Il vero nodo è stato l’accentramento del potere e l’assenza di una classe dirigente alternativa, tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione. La debolezza sistemica dei partiti e l’afasia dell’opposizione hanno favorito la verticalizzazione di un potere che ha svuotato la dialettica democratica.

Ma l’equazione ha smesso di funzionare: il potere logora chi lo esercita troppo a lungo. La Regione si è chiusa in un presente permanente, priva di un’idea di futuro. Denatalità, crisi industriale, emergenza ambientale, desertificazione culturale, disagio sociale: tutte questioni che la macchina amministrativa ha preferito rinviare, inseguendo la logica del carpe diem. Nessuno ha osato oltrepassare le Colonne d’Ercole del contingente.

Chiunque sarà chiamato a guidare la Puglia, da destra o da sinistra, dovrà imprimere una cesura netta col passato. Il ricambio dovrà partire dalla selezione della nuova classe dirigente: basta consiglieri di lungo corso, fedeltà di corrente, apprendisti stregoni premiati per convenienza. Servono competenza, autorevolezza, radicamento territoriale, capacità di visione. E il centrodestra? Non è messo meglio. Ha abdicato al ruolo di opposizione e fatica perfino a individuare un candidato credibile alla presidenza della Regione. Non vediamo che senso abbia la minaccia di una mozione di sfiducia contro il presidente Emiliano e la sua giunta, quando, la destra, per anni, ha fatto l’opposizione di sua maestà.

La sua debolezza è la controparte dell’immobilismo del centrosinistra. Il risultato è un cortocircuito istituzionale: un governo ripiegato su sé stesso e un’opposizione evanescente. In mezzo, i pugliesi. Eppure, mai come ora serve un cambio di passo. La Puglia è una regione a macchia di leopardo, attraversata da contraddizioni profonde. A Foggia, lo Stato non riesce ancora a scrollarsi di dosso l’ombra lunga della «quarta mafia». Bari, importante crocevia economico e commerciale, convive con le contraddizioni tipiche delle grandi città: disuguaglianze, congestione urbana, pressioni turistiche e logistiche. Lecce, almeno, ha compreso che l’autocompiacimento non basta e sta cercando di affrontare la sfida della sostenibilità turistica. Ma è Taranto il simbolo più doloroso del declino.

Le Acciaierie d’Italia sopravvivono tra mancanza di manutenzione, incendi, fughe di gas, cassa integrazione e retorica vuota. Il neo sindaco Bitetti si troverà davanti a tante gatte da pelare e lui capitano di lungo corso può raccontare «la rava e la fava». La chimica brindisina, un tempo eccellenza nazionale, è ormai un ricordo. Resta il tessuto della piccola e media impresa, ma è debole, isolato, esposto alla concorrenza globale e privo di politiche industriali strutturate. Senza interventi forti, la Puglia rischia di trasformarsi in un indotto passivo, in una periferia produttiva di sistemi esterni, senza radici, senza identità. La vecchia metafora della «California d’Italia» resta valida solo sul piano paesaggistico: di Silicon Valley non c’è traccia. Neanche il turismo – traino della crescita recente – è al riparo. L’espansione è disordinata, le infrastrutture carenti, l’overtourism dilaga, il consumo di suolo avanza. Senza una regia strategica, il comparto rischia di diventare insostenibile. Serve un New Deal pugliese. Non uno slogan, ma un piano concreto, organico, strutturale. Che tenga insieme industria, ambiente, lavoro, agricoltura, cultura e formazione. Che punti su innovazione, logistica, transizione energetica e coesione territoriale. Che saldi sviluppo e giustizia sociale. Ma serve anche una ricostruzione delle istituzioni, oggi svuotate, delegittimate, ridotte a cassa di risonanza del leader di turno. Il futuro presidente non potrà essere un capo-popolo. Dovrà essere un architetto politico, capace di ricucire le fratture sociali e territoriali, di restituire alla Puglia un progetto, una direzione, una dignità istituzionale. La sfida è complessa, ma non più rinviabile. O si cambia ora, o la Puglia rischia di entrare in un lungo inverno istituzionale, economico e sociale. E questa volta, senza primavera.

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