Tra i segnali emersi dall’incontro tra Giorgia Meloni e Donald Trump alla Casa Bianca, ce n’è uno che va oltre il protocollo e le dichiarazioni di stima di pragmatica: la consapevolezza italiana che l’asse transatlantico ha bisogno di essere rilanciato non per nostalgia, ma per realismo strategico. La guerra in Ucraina, la competizione sistemica con la Cina, il ritorno della forza come strumento di pressione geopolitica, impongono all’Occidente di ridefinire le sue priorità, le sue rotte e il suo baricentro. Trump, con il consueto pragmatismo egocentrico, ha ribadito: «Tutti vogliono parlare con noi».
Gli accordi, però, valgono se conquistano la durata. E, per questo, servono visione, fiducia e solidi interessi comuni. Meloni, da parte sua, non ha taciuto le diversità di visione (in particolare sull’Ucraina). Non ha chiesto indulgenza, ma ha offerto cooperazione. Ha parlato di dazi, difesa, migrazioni. E ha ribadito un messaggio: l’Italia vuole essere un interlocutore privilegiato, non uno spettatore passivo delle dinamiche globali.
In questo contesto, emerge ancora una volta con forza il ruolo del Mediterraneo, non a caso richiamato esplicitamente dalla premier nell’incontro «del giorno dopo» con il vicepresidente Vance. Nel Mare Nostrum, tra i porti del Mezzogiorno e le rotte del Levante, si gioca una partita che va ben oltre le contingenze commerciali. La posta in gioco è strategica: costruire un’alternativa credibile alla Via della Seta cinese. L’Europa, se vuole restare centrale, deve immaginare una rete di corridoi infrastrutturali ed energetici alternativi a Pechino, che uniscano l’India, il Golfo, il Medio Oriente e che, passando dal Mediterraneo, risalgano verso il cuore del continente europeo.
Per questo, nella nuova architettura geostrategica, il Sud Italia, troppo spesso ridotto ai margini, può trasformarsi in uno snodo operativo. I porti dell’Adriatico - da Gioia Tauro ad Ancona, da Taranto a Trieste - diventano le cerniere naturali tra le grandi dorsali che muovono merci, dati, energia e persone. Il Mezzogiorno, insomma, può svolgere una funzione di «portaerei naturale» nel cuore del Mediterraneo.
In questa stessa prospettiva, rientra anche l’utilità di un atteggiamento più equilibrato nei confronti della Turchia, attore chiave e non eludibile della regione. In passato verso di essa si è troppo spesso oscillati pericolosamente tra eccessive aperture all’integrazione europea e timori motivati dalle ambizioni neo-ottomane e dalle involuzioni interne, da ultimo condannate dal Consiglio d’Europa. Anche per quanto concerne questo snodo critico, l’Italia potrebbe agire da stabilizzatore.
Le mappe geopolitiche, però, da sole non bastano. È anche una questione di scelte: attrezzare le infrastrutture, attrarre investimenti, irrobustire la dorsale logistica che collega il Sud al Centro Europa, valorizzare le Zes, liberare le energie migliori dell’impresa e del mondo produttivo meridionale. È qui che si gioca anche la sfida energetica, con i rigassificatori, gli hub elettrici, gli accumuli energetici, le rinnovabili. E infine, la sfida è simbolica: dimostrare che l’Occidente può governare questa fase declinante della globalizzazione, non patirla.
Naturalmente, tutto questo non può accadere per inerzia. Quel che servirebbe è una strategia nazionale coerente, un’intesa europea lungimirante, una partnership atlantica rinnovata. La visita di Meloni negli Usa rappresenta, in tal senso, un messaggio chiaro e condivisibile: per l’Italia non si tratta di scegliere tra Bruxelles e Washington, ma di ricordare a entrambe la nostra funzione di punto d’equilibrio: un ponte, non una provincia; un attore consapevole del suo ruolo, non un gregario. Un Paese che guarda al mondo con spirito di iniziativa, e che non teme di definirsi ancora occidentale.