Tutto il dibattito politico ed economico è stato assorbito da alcuni giorni dal tema della nuova politica dei dazi di Trump. E tutta l’opinione pubblica mondiale è quindi disorientata e sconcertata dagli effetti reali che ne deriveranno. Gli interrogativi e i timori che si pongono sono tanti e molti si chiedono se siamo in presenza di una tattica negoziale, di una strategia sbagliata o di una pura e semplice follia disfattista.
Un contributo per riuscire a comprendere cosa succederà in concreto può derivare da una valutazione organica e non ideologica delle reali ragioni che inducono la presidenza Trump a perseguire la politica di dazi elevati e generalizzati.
Di conseguenza, non è possibile prescindere da una analisi interdipendente di alcuni dati macroeconomici chiave. Gli USA registrano da circa un ventennio una crescita esponenziale del loro deficit commerciale. Nel 2024 hanno avuto un saldo commerciale negativo di circa 900 miliardi di USD. È fuori discussione che un Paese capace di importare un volume di beni così grande, genera ricchezza, ogni anno, in favore dei Paesi che hanno un saldo commerciale positivo verso questo Paese.
Per contro, il Paese con un deficit commerciale strutturale produce riflessi non positivi nella propria struttura economica e finanziaria. Perché gli Stati Uniti importano un volume di beni così elevato e crescente nel tempo?
La motivazione sta nel fatto che da molti anni gli USA, per mantenere il loro predominio economico, hanno adottato una politica fiscale molto espansiva, basata su un livello molto elevato di spesa pubblica ed un livello molto sostenuto di consumi privati che non trova riscontro nelle altre aree economiche avanzate del mondo. Questo modello di sviluppo ha determinato deficit del bilancio pubblico molto consistenti, 6.7% del Pil nel 2024, pari a poco meno di 2.000 miliardi di USD.
Con questa politica, gli Stati Uniti hanno quindi contribuito in larga misura alla crescita della ricchezza mondiale ed in particolare dei Paesi ad alta vocazione all’export e bassa propensione all’utilizzo della spesa pubblica per sostenere il proprio sviluppo (es: Germania).
Ciò premesso cerchiamo di capire quali sono i veri obiettivi della presidenza Trump. Il vero obiettivo prioritario di Trump non è quello di ridurre le importazioni ma quello di ridurre le imposte ai cittadini e alle imprese americane. Tuttavia, con l’altissimo livello del deficit di bilancio di fatto lo potrà fare solo se prima riesce a ridurre significativamente questo deficit, senza produrre contraccolpi negativi sulla crescita economica. Un’impresa ad evidenza non facile da realizzare agendo sulle normali leve interne (riduzione spesa). I beni importati dagli USA nel 2024 sono stati pari a oltre 4.100 miliardi di USD, con i dazi (tasse) fissati con una media del 25% sui beni importati si potrebbero generare fino a circa 1.000 miliardi di USD per anno di nuove entrate fiscali, qualora il valore dei beni importati rimanesse stabile. Queste entrate andrebbero a ridurre il deficit di bilancio di circa il 50%.
Pertanto, in questo modo Trump, tassando soggetti non americani, potrebbe ridurre le imposte su imprese e cittadini americani per una percentuale pari al 15-20% del valore attuale (circa 7.000 miliardi). La riduzione delle imposte darebbe un forte impulso alla crescita dei consumi e degli investimenti imprimendo una significativa spinta alla crescita economica. Si innescherebbe in tal modo un circolo virtuoso di nuove entrate fiscali e potenziali progressivi alleggerimenti della pressione fiscale.
Ma questa strategia è priva di rischi?
Le conseguenze negative potrebbero essere rilevanti e quelle pressoché certe sono:
- una crescita diffusa dei prezzi dei beni sul mercato interno;
- una crescita dei tassi d’interesse per tenere sotto controllo l’inflazione;
- difficoltà delle aziende americane sottoposte ai controdazi;
- tensioni sul cambio del dollaro verso le altre principali valute.
Come finirà quindi questa battaglia?
Poiché non è possibile razionalmente prevedere:
- l’ampiezza delle spinte inflazionistiche sui prezzi;
- l’intensità delle politiche monetarie restrittive che ne deriveranno necessariamente;
- l’ampiezza e la direzione delle fluttuazioni del cambio del dollaro;
e soprattutto non è possibile prevedere quale sarà la dinamica del pil statunitense nel prossimo futuro;
possiamo dare le seguenti risposte agli interrogativi aperti:
- la strategia dei dazi elevati e generalizzati non è una tattica negoziale ma una precisa strategia (con una elevata dose di azzardo) strettamente correlata a tentare di far crescere l’economia americana attraverso incisivi stimoli fiscali;
- pertanto, non ci sarà alcun cambiamento sostanziale d’indirizzo a breve termine;
- se il Pil americano continuerà a crescere a ritmi elevati anche dopo i dazi, la strategia non subirà alcun cambiamento anche in futuro.
Per contro, se la crescita del Pil americano dovesse subire contraccolpi negativi seri, Trump, volente o nolente, sarebbe costretto a ripensare la sua strategia.
Per una ragione molto semplice, gli Stati Uniti non possono prescindere dal mantenere uno sviluppo elevato della propria economia se non vogliono perdere la loro egemonia nel mondo.
Un’ultima domanda si impone: in questa situazione cosa dovrebbe fare l’Europa per evitare di soccombere?
Non seguire Trump sulla guerra dei dazi né aspettare di capire fino in fondo le sue reali intenzioni, ma fare tutto quello che non ha fatto negli ultimi 15 anni, ovvero fare una politica economica realmente espansiva per stimolare investimenti e consumi interni, partendo in primo luogo da quei Paesi che hanno creduto di perseguire un modello di sviluppo virtuoso basato solo sulla crescita abnorme del loro avanzo commerciale (ergo la Germania). È questo il problema prioritario da affrontare, con alta concentrazione e senza ulteriori indugi.