Domenica 07 Settembre 2025 | 15:15

Quella «sposa immaginaria» e la realtà delle fragilità che fingiamo di non vedere

 
Francesco Caroli

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Francesco Caroli

Quella «sposa immaginaria» e la realtà delle fragilità che fingiamo di non vedere

Nascono spontanee, dunque, alcune domande. Chi si occupa della salute, ed in particolare della dimensione mentale, di tutte e tutti quei professionisti che si occupano di affiancare, educare, curare il prossimo?

Lunedì 22 Luglio 2024, 12:46

Non avrà conquistato il cuore del suo amato, ma purtroppo, ha ottenuto l’attenzione dell’Italia intera. E anche questa, forse, è una cattiva notizia. La vicenda della sposa «abbandonata» sull’altare in un paese della provincia di Taranto è passata dal chiacchiericcio di marciapiede della tranquilla cittadina pugliese alla ribalta nazionale attraverso il circo mediatico e social, causando facili ironie (troppe) e approfondite riflessioni (troppo poche).

Una vicenda che lascia una profonda tristezza ma, anche, un’occasione per riflettere sul delicato tema della salute mentale, di come viene percepito e vissuto dalla comunità e delle condizioni psicologiche di chi si occupa di affiancare, educare, curare il prossimo. Il fatto di per sé, semplice, quanto struggente è il seguente.

Alcuni giorni fa, una donna, ha atteso il suo «sposo» davanti all’altare della chiesa per ore. Poi si è dovuta arrendere: «Va bene, se non mi posso sposare allora vado al mare», ha detto al parroco che cercava di consolarla.

Eppure aveva pensato (e pagato) tutto: l’abito bianco immacolato, la cattedrale adornata a festa con fiori, la sala ricevimenti e le bomboniere. L’amato è un suo collega. Ed è proprio questo un elemento su cui occorre fare uno sforzo di riflessione. La protagonista quarantenne della vicenda, infatti, è un’insegnante. Ed è la seconda volta che lei viene «abbandonata» sull’altare. Era già successo a ottobre 2023 quando lei aveva chiesto ai colleghi di fare da testimoni e aveva preparato le partecipazioni.

Nascono spontanee, dunque, alcune domande. Chi si occupa della salute, ed in particolare della dimensione mentale, di tutte e tutti quei professionisti che si occupano di affiancare, educare, curare il prossimo?

Chi è, e come sta, chi educa i nostri giovani nella fase delicata dell’adolescenza, già costretti ad affacciarsi in una società, mai come oggi, così complessa e con pessime prospettive di futuro?

Come comunità cosa facciamo e come siamo disposti ad aiutare chi vive un momento o una condizione di fragilità psicologica?

Siamo certi che nei nostri gruppi di amici e anche nelle nostre famiglie di essere attenti e pronti a gestire queste condizioni?

Purtroppo le domande hanno risposte che tutti conosciamo, ma che abbiamo il dovere di cambiare. Se proviamo a sperare che coloro che si sono divertiti a riprendere col cellulare la scena e farla girare nelle chat sono solo un’eccezione di un’intera comunità, è sicuramente vero che sul tema salute mentale cresce la conoscenza ma manca ancora troppo la consapevolezza sull’importanza della sua cura.

Abbiamo un sistema sanitario che per anni ha accettato di considerarla una salute di serie B rispetto a quella fisica con le conseguenze dell’assenza totale di un sistema di prevenzione, di intercettazione dei segni prodromici, della capacità di intercettare gli esordi e orientare ai giusti percorsi.

Ad oggi, infatti, il ritardo in oncologia non è accettato, ma per una visita o presa in carico psicologica o psichiatria si può sempre aspettare (spesso nel pubblico non c’è neanche la possibilità, pur aspettando).

Di fronte a questa situazione la risposta della «politica» (o meglio i decisori politici, le persone, che noi tutti abbiamo votato) deve fare la propria parte in maniera più convinta, più lungimirante, più strutturale.

Può e deve farlo, innanzitutto, aumentando il numero di professionisti sanitari che si occupano di questi temi ma, anche, investendo maggiormente in offerta di servizi accessibili e gratuiti: ci sono ancora troppe persone che non possono permettersi di curarsi.

Ma occorre essere chiari: l’intervento politico non sarà mai abbastanza. A ciascuno di noi spetta il compito di riconoscere il ruolo fondamentale esercitato in questo mondo anche da chi non vive il problema in maniera diretta. Il disagio mentale è una condizione che può riguardare tutti, in fasi diverse e condizioni anche temporanee della vita. Non è una debolezza o una vergogna: occorre quindi uno sforzo per cancellare lo stigma e proporre un superamento della sua dimensione individuale e occuparcene collettivamente e in maniera strutturale come comunità.

Insomma, nell’epoca dove tutto può diventare virale in un attimo e finire sugli smartphone di chiunque, quello di cui abbiamo bisogno è, soprattutto in casi analoghi, grande umanità. E un decisivo cambio di prospettiva culturale che generi interventi strutturali sul mondo della salute mentale. Meno gossip e più cure.

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