Nel centrosinistra barese toni concilianti, credo sinceri, con qualche integralismo di troppo finalmente accantonato: per le primarie si profilerebbe, dunque, un finale di partita costruttivo e con proposte politiche utili per l’auspicato governo della città.
Un suggerimento, per quanto non richiesto, potrebbe essere indirizzato ai due candidati e ai dirigenti politici della coalizione, forse utile per una soluzione al più alto profilo possibile del governo della città, ma anche come stimolo per quelle componenti politiche che in sede nazionale, ancorché timidamente, parrebbero orientarsi ad affrontare l’appuntamento, ormai indilazionabile, di un organico progetto di riforma del sistema del governo locale: dopo i tentativi, assai goffi in verità, di far passare con l’espediente, neppure originale, dell’innocente emendamento modifiche ordinamentali non secondarie, come il terzo mandato per i presidenti di Regione o, addirittura, l’abolizione del secondo turno per l’elezione dei sindaci.
Mi è capitato di scrivere ancora su queste colonne che l’ultima vera riforma delle Autonomie è la legge 142 del 1990 che sostituiva un Testo unico del 1934 addirittura di epoca fascista: mentre quello che è accaduto dopo, anche per Province e Regioni, è frutto o dell’emergenza, nel tentativo di vincere la partitocrazia, o del governismo, la nuova e diversa declinazione della governabilità.
In particolare, le norme sull’elezione diretta dei sindaci, studiata a lungo ma operativa solo dal 1993, sarebbe stata applicata fuori tempo giacché la crisi dei partiti, ormai, avanzava a grandi passi.
Dopo lunga latitanza della cultura, ma anche della politica, su materia che pure interessa largissima parte del governo della Nazione, nei giorni appena trascorsi, per meglio motivare la contrarietà espressa in parlamento su entrambe le questioni, da autorevoli parlamentari si è ascoltato un sia pur timido riferimento alla necessità di una riforma complessiva delle Autonomie e un particolare riferimento alla rivalutazione delle assemblee elettive.
Le imminenti elezioni comunali e regionali dovrebbero rappresentare l’occasione migliore per approfondire, addirittura sperimentare quei temi e spingere partiti e assemblee legislative, consci dell’indilazionabilità, a mettere mano ad una riforma organica: prendendo coscienza che l’applicazione di tutto quello che ispirò l’elezione diretta del 1993 è coinciso con l’esatto contrario dei suoi principi ispiratori; la sopraggiunta crisi dei partiti (ridotti per lo più a comitati elettorali), infatti, è riuscita a produrre solo trasformismo, falso civismo e personalizzazione della politica, con la degenerazione del ruolo degli eletti e per quel minimo che ne residuava delle assemblee.
E ciò, nonostante che nel 1990 l’autonomia statutaria abbia introdotto un’irripetibile opportunità per la crescita culturale e politica del dibattito democratico e per la stessa partecipazione.
Ebbene, solo che in sede locale oggi davvero lo si voglia, si potrebbe tentare una possibile ripartenza, e a legislazione invariata, anche come sollecitazione alle forze politiche nazionali a prendere di petto la riforma.
Innanzitutto con un’operazione di mera ingegneria istituzionale, applicando alla lettera gli statuti vigenti, approvati negli anni novanta, che tutti prevedono la possibilità, se non l’obbligo, per i consigli comunali di promuovere approfondimenti politici e discussioni sull’intera vita comunale.
E poi una sorta di «cessione di sovranità», solo politica, da parte del sindaco in favore dell’assemblea, discutendo e concordando principi e criteri per decisioni oggi solo di sua competenza. Mettendo in pratica uno dei principi fondanti della democrazia compiuta, «il potere frena il potere», e riequilibrando e rivalutando con le funzioni il ruolo politico di sindaco e presidente del Consiglio.
E perchè, oltre all’equilibrio dei poteri, la gente possa tornare, come un tempo, a frequentare assemblee dove si discuta davvero: recuperando piena fiducia nelle istituzioni più che solo alle persone.