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Perché avrebbe senso togliere il limite dei tre mandati elettivi

 
Pino Pisicchio

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Pino Pisicchio

Perché avrebbe senso togliere il limite dei tre mandati elettivi

Liberalizzare i mandati potrebbe significare anche mettere un mattoncino per la ricostruzione della forma-partito democratica

Domenica 03 Dicembre 2023, 14:51

A spanne parrebbe che il dibattito sui candidati alle prossime elezioni locali- comunali e regionali, forse anche provinciali-possa essere in grado di coinvolgere esclusivamente un piccolo pubblico di cultori della materia. Rappresentato dal popolo dei candidati, da ciò che è rimasto degli apparati politici (poco e niente), da un ciuffo di sigle associative allestite dagli stessi aspiranti candidati e da un 2-3% del corpo elettorale che eroicamente resiste alle tentazioni del “disincanto”.

Ovviamente questo è un peccato perché il livello locale, che mette in faccia gli uni agli altri rappresentanti e rappresentati esercitando questi ultimi il potere del voto di preferenza, rischia di bruciare questa occasione a vantaggio, appunto, solo dei cultori interessati ad approfittare delle distrazioni più larghe.

Ma è uno spreco anche perché se i cittadini non fanno valere i loro diritti nella democrazia di prossimità, ben difficilmente potranno farlo quando si trovano di fronte a liste bloccate e sigillate con dentro gragnuolate di cooptati che nessuno conosce. E allora tra agitazioni precoci di sindaci putativi, pre-campagne per tastare il terreno, primarie si primarie no, gossip della cartastampata e delle tv locali che debbono campare pure loro e si devono industriare ad allestire un menù di candidati ogni giorno, si perdono di vista alcune cose salienti. Per esempio il limite dei tre mandati per i sindaci e i presidenti delle regioni. La prima cosa che balza agli occhi è il clamoroso iato tra livello di rappresentanza nazionale e livello locale: ciò che è consentito a persone cooptate in Parlamento, senza che vi sia un minimo controllo dell’elettore, viene vietato al livello regionale e comunale, dove addirittura si scelgono sindaco e presidente attraverso una elezione diretta. Qual è allora la logica? Diciamo che tutto partì dall’epifania del decennio protopoulista, degli anni novanta del secolo scorso, quando il combinato disposto dell’elezione diretta e dell’innamoramento maggioritarista, entrambi sostenuti dal “referendario” Mario Segni, insieme al più turgido sentimento antipolitico che si possa immaginare, sostenuto da tutti i media nei giorni tristi di tangentopoli, produsse tutto ciò che poteva per fare a pezzi il sistema dei partiti. Naturalmente un obiettivo ghiotto è stato quello di eliminare dalla scena il “politico di professione”.

Il motivo del limite dei due mandati è da ricercare in questa ragione; gli effetti, dobbiamo riconoscere, sono stati straordinari : uccisi i partiti e le loro scuole di formazione, fatta fuori un’intera classe dirigente, si è dovuto attingere alla ruota della fortuna, letteralmente.

Qualche volta (ahimè solo qualche volta) è pure andata bene, perché chi è arrivato a svolgere ruoli apicali nella rappresentanza ha imparato il mestiere, eppero’, appena ha cominciato a muoversi con la libertà e l’autorevolezza della conoscenza, ecco che al secondo mandato ha dovuto lasciare. In fondo in questa regola dei due mandati c’è il pregiudizio di un legislatore che non ha posto nessuna fiducia nell’elettore, immaginando che non sia in grado di discernere e di fare scelte che possono bocciare il sindaco in carica. E c’è anche un retropensiero in questo limite: perpetuare l’inconsistenza della politica. Perché candidarsi per la terza volta non dovrebbe essere una faccenda che si apre e si chiude con la volontà del sindaco ( o presidente) uscente, ma è un atto che impegna un’ intera comunità politica, quella del partito di appartenenza. Ecco, forse liberalizzare i mandati potrebbe significare anche mettere un mattoncino per la ricostruzione della forma-partito democratica. Dopo averne tolti così tanti da far venire giù muri interi.

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