Da circa un anno ho smesso di fare politica attiva. Negli ultimi tempi della mia attività un fenomeno mi aveva particolarmente colpito: mentre a lungo, per quasi un ventennio, avevo ricevuto sollecitazioni di giovani e meno giovani in cerca di lavoro che mi interrogavano circa possibili intermediazioni con imprenditori e operatori economici privati, da un certo punto in poi sono stati imprenditori e commercianti a chiedermi se avessi da proporre loro persone in cerca di occupazione.
Avevo attributo questa inversione di paradigma agli effetti perversi del reddito di cittadinanza. Ero e resto convinto che quel provvedimento, così come attuato, abbia prodotto più danni che benefici. Non certo perché lo Stato possa sottrarsi dal dovere di intervenire per contenere le povertà e salvaguardare la dignità delle persone. Ma perché, in quest’ambito, i provvedimenti possono con facilità produrre effetti indesiderati, finendo con l’accrescere i problemi che invece si vorrebbero alleviare.
A suo tempo ce lo spiegò in modo scientificamente convincente Ernesto Rossi, in un libro intitolato Abolire la miseria (mai titolo fu più evocativo) infine riproposto dalla casa editrice Laterza con la prefazione di Eugenio Scalfari: non certo un retrivo conservatore.
Quest’estate, discorrendo con amici che portano avanti attività per lo più stagionali, mi sono reso conto che la carenza di personale manifestatasi con particolare virulenza in corrispondenza dell’uscita dal Covid-19, è oramai divenuta cronica. Ho anche compreso, però, che sarebbe un errore ritenere - come io ho fatto per un certo periodo - che essa sia provocata esclusivamente dagli effetti indesiderati che, in particolare al sud, il reddito di cittadinanza ha prodotto.
Alla base di questa crisi c’è qualcosa di più profondo; qualcosa che riguarda la concezione stessa del lavoro. Per la mia generazione esso, infatti, era una priorità «a prescindere» e la ragione prima di realizzazione. Per i giovani d’oggi esso, per assumere lo stesso valore, deve rispondere a particolari requisiti: accordarsi con l’esigenza di un determinato standard di qualità della vita (che non si esaurisce più nell’avere un’occupazione e un reddito soddisfacente); consentire perciò la disponibilità di tempo libero (perché la realizzazione personale passa anche da quegli spazi); generare curiosità e ampliamento dei propri orizzonti (perché oggi un lavoro non è più per sempre). Il fattore veramente decisivo, poi, è che il lavoro risulti coinvolgente: generi la compartecipazione ad un progetto e il senso di appartenenza ad una squadra con la quale si condividono obiettivi di fondo.
Questi mutamenti nel modo di pensare delle nuove generazioni rinverdiscono e ripropongono intuizioni che in passato ebbero alcuni teorici della «partecipazione» (intesa non solo in senso economico) e della «comunità». Il pensiero va a uomini come Giulio Pastore o Adriano Olivetti, le cui idee si rinvengono in fondo a tanti dei progetti delle imprese che hanno scoperto il welfare aziendale, senza magari che esse ne siano neppure consapevoli.
C’è, però, una differenza che è frutto dei tempi e dello sviluppo della tecnologia: assai spesso la partecipazione e il senso di comunità assumono per i giovani una connotazione prevalentemente virtuale perché si sviluppano a distanza: attraverso la rete, la partecipazione ai social, l’esercizio dello smart working. La circostanza potrà anche non piacere a chi - come il sottoscritto - ritiene che il contatto umano sia in grado di generare un’empatia che nessun social media sarà mai in grado di produrre. Non per questo, però, essa potrà essere ignorata o sottovalutata. L’imprenditore che vorrà coinvolgere nei suoi progetti forze giovani, dovrà fare lo sforzo di adeguare la sua offerta a una domanda che si è profondamente modificata senza trincerarsi nel refrain della generazione senza valori.
Ai giovani d’oggi i valori non mancano: alcuni li vivono in maniera più intensa altri meno, come sempre è accaduto. Il fatto è che quei valori sono cambiati e non sono più i nostri. Chi opera in ambito economico e ha bisogno di mano d’opera dovrà perciò obbligatoriamente tenerne conto: è il mercato bellezza!