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Il catechismo femminista contro la morale apparente del «non si fa»

 
Dorella Cianci

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Dorella Cianci

Il catechismo femminista contro la morale apparente del «non si fa»

Michela Murgia, lasciandoci, ci ha consegnato un’eredità intellettuale difficile da sintetizzare

Sabato 12 Agosto 2023, 16:32

16:34

Nicola Lagioia ha scritto che l’Italia è un Paese troppo lento per la velocità di pensiero di Michela Murgia, che – lasciandoci – ci ha consegnato un’eredità intellettuale difficile da sintetizzare: femminismo, tutela dei diritti dei migranti, degli omosessuali, lotta al nuovo schiavismo lavorativo gestito da algoritmi, teologia, dibattiti sulla famiglia e ovviamente letteratura a cavallo fra il secolo breve e quello brevissimo. Indelebile una stupenda foto di Cesarano allo Sponz Fest di Capossela, il quale ha scritto in queste ore: «Michela ha sempre avuto il coraggio di guardare in faccia i desideri, senza annacquarli con la paura». Non solo. Ha cercato di porre delle domande importanti alla fede, in particolare nel volume Einaudi God Save The Queer. Catechismo femminista, che inizia con il superamento di alcune domande asfittiche, imprigionate nella morale apparente del «non si fa».

La prima domanda di questa serie è stata menzionata proprio dalla Murgia e recita più o meno questo ritornello: «Come si fa a tenere insieme la fede cattolica con il femminismo?». È chiaro che la domanda è fin troppo semplicistica e, fin troppo spesso, pronunciata già con la malizia di cogliere in fallo l’interlocutore; eppure la risposta della scrittrice è stata cubitale nella sua autorevolezza, limpida nella sua semplicità: «L’idea di Dio che la mia Chiesa professa include la mia libertà o la nega? È un’idea che mi condanna o mi accoglie? Mi giudica o mi ascolta? C’è spazio per me, c’è il riconoscimento della mia individualità? Dio mi ama come sono e vorrò essere oppure rimarrò un disordine oggettivo nell’ordine della creazione? Un’anomalia di programmazione destinata a stare ai margini, a essere guardata con sospetto, una specie di peccato ambulante per il solo fatto di esistere così come sono?». Sapeva bene che queste domande se le pongono di continuo tutti coloro che si trovano occasionalmente a dover cercare un compromesso fra la propria coscienza e gli insegnamenti di fede.

Domande nuove e antichissime al tempo stesso, domande che – come diceva Murgia – si sono già posti in tanti, ad esempio San Francesco d’Assisi. Domande senza aut aut (per citare un filosofo), domande inclusive di chi vuole vivere la propria vita alla luce del Vangelo, ma anche stando alla strada dettata dalla propria intelligenza. La società dell’et et è stata per lei la via maestra della politica, dei diritti e non solo della fede. La sua letteratura femminista ha tentato di smantellare i residui di una società patriarcale, che sembrano duri a morire, non sono in Italia (e la violenza sulle donne è il dato lampante a supporto di quest’affermazione).

Che altro dire? C’era sempre da imparare qualcosa di nuovo nell’ascoltare Michela Murgia, sia nelle sue conferenze sia a un caffè prima che scappasse da Floris o dalla Gruber (nella sua preferita La7). In una di queste chiacchiere aveva ribadito la sua ammirazione per chi sa di filosofia antica o di lingue classiche, ma aveva anche aggiunto di aver tentato di riparare a questo vuoto da sola, nella convinzione che ci accomunava: la filosofia deve essere autenticamente per tutti, altrimenti finisce per essere un ulteriore modo per rinforzare la società escludente.

Alla domanda «Com’è la nostra realtà di persone europee del Duemila?» aveva risposto citando il filosofo inglese William Irwin Thomson, «Siamo mosche che strisciano sul soffitto della Cappella Sistina. Non riusciamo a vedere quali angeli e dei si trovano sotto la soglia delle nostre percezioni. Viviamo nei nostri paradigmi, nelle sensazioni ammaestrate, nelle illusioni, che – a volte – chiamiamo realtà storica».

Sapeva certamente fare rapidamente il punto della situazione e poi scomporlo in pezzettini di complessità, per evitare la strada banale; sapeva comprendere il vero concetto di famiglia «trasversale», lontana dal vetusto concetto dei legami di sangue. Amava i legami di cuore. È ben evidente come ogni suo libro è stato e continuerà a essere un atto politico, un’esigenza di rigenerazione e di progresso civile per mettere ai margini la rappresentazione mediatica e viziata della donna. Sin dai giorni del Premio Campiello volle precisare che il suo essere isolana (nata in Sardegna) le aveva conferito un carattere improntato al confine. Amava dire che chi nasce su un’isola vede sempre il confine, sia sociale che pedagogico e sogna l’altrove, il cambiamento. Si scriverà tanto di lei in queste ore; molti ritratti sono decisamente calzanti (come quello della scrittrice Chiara Valerio), altri meno (come i coccodrilli vani delle tv). Intanto però, a prescindere da tutto e anche da questo contributo, di lei restano splendide pagine, spesso pubblicate da Einaudi, a iniziare da Accabadora, archetipo di un destino che non può non compiersi.

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