Dopo l’editoriale del direttore Oscar Iarussi, pubblicato domenica 23 luglio e dedicato al Mezzogiorno delle aree interne, pubblichiamo un intervento di Giuseppe Lupo, lucano, scrittore e italianista della «Cattolica» di Milano
Tra i tanti rischi a cui potrebbe andare incontro il Sud delle aree interne, il «Mezzogiorno nascosto» come lo definisce Oscar Iarussi nell’editoriale apparso domenica scorsa sulla «Gazzetta», quello dell’invisibilità sembra essere il più subdolo e pericoloso. Sono ancora vive le polemiche sorte intorno all’articolo che Alain Elkann ha pubblicato su «Repubblica» del 24 luglio: un reportage ambientato sulla tratta ferroviaria Roma-Foggia, che ha suscitato ilarità e sdegno per le parole con cui veniva rappresentata l’antropologia di alcuni giovani che occupavano i sedili di fianco allo scrittore, da lui definiti «lanzichenecchi».
A nessuno è venuto in mente di riflettere che il treno stava attraversando le aree interne del Meridione oggi posizionate al centro degli interessi strategici del PNRR e, dunque, del dibattito politico. Dall’articolo apprendiamo che i ragazzi provenissero da nord e che la loro principale occupazione, durante il viaggio, fosse quella di conversare rumorosamente, rimanendo dentro un circuito autoreferenziale, nutrito della desolante cronaca che circonda il loro vissuto quotidiano, quel vuoto grigio, fatto di social e virtualità, a cui attingere come risorsa per approdare nel mondo degli adulti o per difendersi dalle insidie. Anziché immergersi in uno spazio del tutto nuovo, i giovani non hanno mostrato interesse verso il paesaggio che il treno stava percorrendo, rimanendo in una dimensione refrattaria a quel che scorreva al di là dei finestrini. La medesima considerazione può essere fatta su Alain Elkann, che nel suo stigmatizzare i comportamenti di chi gli stava di fianco o di fronte, non dà riscontro dell’itinerario – prima quella che un tempo si indicava come Terra di Lavoro (il Casertano, oggi diventato tristemente famoso con il nome di Terra dei fuochi), poi il Sannio, infine la piana di Capitanata –, restando anch’egli un corpo estraneo a quelle regioni di Appennini, di strettoie, di valli che evidentemente non meritavano attenzione essendo ormai sempre più espressione della dignitosa resa di chi si sente subalterno.
Qualunque siano i motivi, quando si scende a sud, non ci si spoglia del proprio habitus, anzi si rimane insensibili in nome del fatto che il sud è un’esperienza da consumare senza farsi coinvolgere. Il caso ha voluto che insieme alla pubblicazione di questo articolo sia circolata un’altra notizia, quella della scomparsa di Marc Augé, il filosofo-antropologo tra i più citati negli ultimi vent’anni, lo scopritore dei non-luoghi. Per quanto possa risultare una forzatura, la coincidenza ha prodotto un simbolico cortocircuito di sicuro fascino fino al punto da provocare una riflessione: adulti o adolescenti che fossero, i passeggeri a bordo del treno Roma-Foggia, anziché dentro un paesaggio di uomini e di comunità, si sono mossi lungo la direttrice di un paradossale non-luogo. Come altro si può definire, se non così, la geografia di un entroterra in cui domina con effetto totale la testimonianza di uno spaesamento?
Quel che in altri anni veniva rubricato come «Mezzogiorno interno», adesso è diventato il palcoscenico di un’assenza, una speciale metafisica della desolazione, da contemplare con fare esotico, cercando di non farsi troppo coinvolgere dall’aria di abbandono e di fallimento che rende simili tanto la cintura periferica delle città quanto le zone che stanno al confine tra i paesi in via di spopolamento e le pale eoliche che spuntano dalle zolle dei terreni come gigantesche ossessioni di una modernità sbagliata.
Tutto questo mostrerebbe poca attinenza con il treno occupato dai «lanzichenecchi» e tuttavia soltanto a pochi chilometri dai binari lo sguardo di chi viaggiava poteva intercettare due stabilimenti Fiat, uno a Cassino (non lontano da Caserta), l’altro a Melfi (non lontano da Foggia), risalenti il primo agli anni Settanta e il secondo agli anni Novanta, entrambi legati da un vincolo di «parentela» con Alain Elkann. Anch’essi sono monumento di un certo Meridione che almeno per quello di Cassino conserva i caratteri del fordismo – sono parole di Iarussi – e la loro invisibilità appare tanto più clamorosa quanto più si considera lo sforzo di dare ossigeno a popolazioni asfissiate dalla mancanza di lavoro. Ma nessuno li ha visti, né Elkann, troppo impegnato a studiare i suoi vicini, né i lanzichenecchi chiassosi e tatuati, specchio dei luoghi a cui il tempo del postmoderno, di cui noi stessi siamo spettatori fin troppo passivi, ha sottratto buona parte delle prospettive verso cui rivolgere le proprio speranze.
Sia il Mezzogiorno arcaico che quello pseudo-industriale vivono nella condizione di trasparenza. Un tempo non accadeva. Un tempo, come negli anni Cinquanta, quegli stessi luoghi erano il laboratorio dentro cui antropologi, etnologi, sociologi, economisti sperimentavano l’ebbrezza della civiltà contadina come preludio al moderno. Ce ne dà testimonianza Francesco Faeta in un documentatissimo libro che si intitola Vi sono molte strade per l’Italia. Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta (Rubbettino ed., pp. 263, euro 19). Viaggi, fotografie, reportage, libri. Poi il nulla. Scrive Gaeta: «Tornato a New York, nel 1951, George Terhune Peck perde di vista la Lucania. Tornato dal suo viaggio in Calabria, David “Chim” Seymour nel 1956 perde la vita nel luogo dove era in missione per conto dell’agenzia Magnum, ucciso da proditoria raffica di mitra proveniente dalla sponda egiziana. Tornato a Middletown, nel 1957, Frank Cancian smarrisce la strada del rientro in Irpinia».