All’epoca in cui la vincita al totocalcio rappresentava il sogno proibito della maggior parte degli italiani, mio padre - sempre molto prudente nelle questioni finanziarie - amava raccontare un episodio. Qualche anno prima un suo vicino, di professione netturbino, dopo aver vinto, con un 13, una somma molto considerevole, aveva cambiato completamente il tenore di vita della sua famiglia, abbandonando la casa popolare dove viveva a favore di un appartamento in centro, comprando l’automobile e sostenendo diverse spese voluttuarie; e naturalmente sua moglie aveva smesso di «andare a servizio». Dopo alcuni anni, però, essendosi prosciugato il «tesoretto» che gli era sembrato tanto grande da essere inesauribile, si era trovato in grosse difficoltà economiche, non riuscendo - con il suo misero stipendio - a sostenere il nuovo tenore di vita. L’intento pedagogico del racconto era quello di insegnarci la differenza tra investimenti (che necessitano di capitale una tantum) e spesa corrente (a cui bisogna far fronte con redditi di pare entità).
L’apologo può essere utile alla lettura delle difficoltà che l’utilizzo di una parte significativa dei fondi del PNRR sta incontrando. L’arrivo, in più tranche, di oltre 190 miliardi di euro, di cui oltre un terzo a fondo perduto, e la quota restante in prestito a condizioni molto favorevoli, è apparso al nostro paese, gravato da un debito pubblico enorme, come «un 13 al totocalcio», in grado di risolvere molti nostri problemi. Si tratta certamente di una cifra complessiva estremamente rilevante, ma erogata una tantum e destinabile pertanto (e per vincolo UE) esclusivamente a investimenti, e non a spese correnti. E qui sorgono i problemi, proprio nei settori in cui la necessità di una maggiore spesa pubblica è più sentita. Consideriamo la sanità: per ripristinare un adeguato Servizio Sanitario Nazionale, una volta fiore all’occhiello dell’Italia, ed oggi mortificato dai troppi tagli a favore del privato, è previsto il finanziamento alle Regioni per la realizzazione e l’avviamento di Case ed Ospedali di Comunità; costruzione quindi, e poi avviamento della gestione, ma solo fino al 2025. Dopo questa data la spesa corrente (che non potrà che essere superiore rispetto all’attuale, se vogliamo che la misura serva davvero a migliorare l’assistenza e ad abbattere gli scandalosi tempi d’attesa) dovrà essere sostenuta dai bilanci regionali.
Analoga è la situazione per asili nidi e scuole d’infanzia: è prevista la realizzazione di 265.000 nuovi posti, che dovranno poi essere gestiti dagli enti locali beneficiari dei finanziamenti: con quali entrate? Non dobbiamo quindi meravigliarci se Regioni e Comuni sono, in molti casi, poco propensi ad accettare questo «regalo», sapendo che dovranno, ultimata la fase d’avvio, sostenerne i costi di gestione a regime: personale in primis, e poi utenze, manutenzioni, ecc. E naturalmente il problema è tanto più sentito quanto più sono poveri i territori interessati (che sono anche quelli in cui il gap di dotazione, e quindi il fabbisogno di intervento, è maggiore), e più in sofferenza i bilanci pubblici. E ancora: il Ministero dell’Università ha finanziato 18.770 borse di dottorato di ricerca per l’Anno Accademico 2023-2024, in sensibile aumento rispetto agli anni precedenti. Esaurendosi in un triennio, sono considerati costi di investimento, e quindi addebitabili al PNRR; ma dobbiamo chiederci: quanti di questi dottori di ricerca «in più» rispetto all’attuale regime troveranno sbocchi lavorativi adeguati nel pubblico o nel privato tra tre anni? Stiamo potenziando strutturalmente il nostro sistema di ricerca (che ne avrebbe assolutamente bisogno) o stiamo solo alimentando una «bolla» destinata ad esaurirsi nel triennio? Non meravigliamoci quindi se, soprattutto in settori ad alta occupazione, come ad esempio ingegneria o informatica, si fa oggi fatica a trovare abbastanza candidati validi al dottorato, in quanto molti neolaureati preferiscono l’immediata occupazione a tempo indeterminato piuttosto che un percorso formativo che potrebbe portarli, al conseguimento del prestigioso titolo, ad un incontro sbilanciato tra un picco eccezionale di offerta di competenze d’eccellenza ed una domanda, da parte di Università e centri di ricerca pubblici e privati, «fisiologicamente stabile».
Il fatto è che gli investimenti pubblici di cui abbiamo più bisogno servono, soprattutto, ad aumentare il welfare, che però necessita di essere adeguatamente supportato in termini di spesa corrente, e non solo di investimenti una tantum. Come ha recentemente rilevato la Banca d’Italia, la promessa adozione della flat tax è una chimera assolutamente incompatibile con il mantenimento (ed avremmo anzi bisogno di un sostanziale potenziamento) di un welfare in grado di contrastare l’ormai insostenibile livello raggiunto dalle diseguaglianze, a livello sia individuale che territoriale. Il PNRR, anche se - come è sempre più probabile - non sarà utilizzato in toto, ci porterà molte nuove dotazioni infrastrutturali utili al territorio, ma che per essere utilizzate necessiteranno, inevitabilmente, di un aumento della spesa pubblica, e quindi del carico fiscale complessivo. Come ci insegna la penosa esperienza del povero netturbino: se mi regalano i soldi per acquistare l’automobile sono felice, ma devo anche chiedermi dove troverò le risorse per pagare benzina, bollo ed assicurazione.