Il 28 e il 29 maggio si tornerà alle urne per il ballottaggio nei comuni che non risolsero la pratica al primo turno, coinvolgendo ancora sette capoluoghi. La legge elettorale prevede questo strascico che si svolgerà davanti ad una platea di votanti certamente ancora più bassa di quella già esigua del primo turno, ponendo al buon senso politico, probabilmente infiacchito dal non uso, la domanda del perché.
In realtà lo sfasamento della partecipazione democratica è un fatto acquisito: si fa finta di contristarsi un poco la sera dei risultati, si agita l’allarme disaffezione, e poi, siccome «the show must go on», il giorno dopo tutto è dimenticato, salvo scampoli di dibattito allarmato nei circoli iniziatici dei sociologi e dei sondaggisti. Il voto diventa così faccenda di minoranze attive e gli eletti rappresentanti di minoranze di cittadini: una democrazia che si snatura e poi si spegne.
In questo spegnimento c’è qualcosa di ancora più allarmante: scompaiono i giovani elettori. Il fenomeno è globale, certo: il Times un paio d’anni fa pubblicò una vasta inchiesta da cui risultava che i giovani in media nel mondo democratico votavano in misura del 20% di meno rispetto agli adulti, con punte ancora più basse in paesi come il Regno Unito, gli USA e la Francia, paese in cui il 42% dei nuovi elettori si è astenuto. Cifra quest’ultima sovrapponibile a quella nostra.
I giovani elettori italiani sono il 20% del corpo elettorale, gli ultra cinquantenni il 40%. I pensionati, italiani che hanno superato i 65 anni, superano il 22%. Quest’ultima fascia di età non ha perso l’abitudine-salute permettendo- di recarsi alle urne, insieme a buona parte del segmento che va dai cinquanta ai sessantacinque. Dunque chi sceglie e determina sono cittadini in piena attività produttiva o usciti dal mercato del lavoro ma forniti di strumenti per condurre una vita dignitosa e talvolta anche di più. I giovani no. Eppure ad avere una necessità assoluta di futuro nelle istituzioni sono i giovani, assai più di coloro che il futuro l’hanno in larga misura dietro alle spalle.
Il tema è serio: i giovani si tengono lontani dalla politica con un atteggiamento che non mette dentro nessun pathos: non c’è sdegno, non contestazione, ricerca di alternativa o che. Semplicemente indifferenza, una sorta di apatia cosmica, di disincanto: l’idea che tanto non ne valga la pena.
Secondo una interpretazione corrente la partecipazione virtuale attraverso i social surrogherebbe l’attivismo politico. Insomma: lo smartphone ha sostituito la sezione di partito. Non c’è dubbio che generazioni che cominciano a non avere più contezza del rapporto con la cartastampata o con il cinema nelle sale cinematografiche, si rapportano con naturalezza a ciò che ha rappresentato il biberon della loro prima infanzia, lo smartphone, appunto.
Ma, poniamo che avessero qualche curiosità per il partito politico in carne ed ossa, quello con le sezioni, i dibattiti, le scuole di politica, i congressi, insomma quella roba che ha riempito buona parte del romanzo di formazione della mia generazione, di grazia a quale indirizzo dovrebbero scampanellare?
Questo è il punto: come si può chiedere un’attenzione ai giovani per la politica se i luoghi della politica sono scomparsi? E questo non è un tema che riguarda solo le attuali generazioni, ma tocca noi che abbiamo liquidato il senso della democrazia dei partiti, sostituendovi dei «brand», secondo i canoni del marketing commerciale, nelle mani di padroni e padroncini. E che appeal può avere una roba così? Le ragazze e i ragazzi di oggi sono meravigliosi: hanno curiosità, voglia d’impegnarsi, sentimenti solidali, come si addice alle giovani generazioni.
Li vedo ogni giorno alle mie lezioni in Università, ma li abbiamo visti tutti in tv, a spalare il fango per dare una mano alla gente colpita dall’alluvione in Emilia Romagna. Gli angeli del fango, come i loro nonni a Firenze nel 1966. Due anni dopo sarebbe scoppiata la rivoluzione giovanile, che allineava politica, rock e urgenza di un mondo migliore. Per un poco funzionò pure. Almeno per la buona musica.