Se la politica, in genere, non accende i cuori della pubblica opinione- meglio un bel dibattito sul Napoli scudettato o sull’incoronazione di Re Carlo- figurarsi, poi, le riforme costituzionali. Eppure questo è un errore: circolava più dibattito tra il popolo nelle prime legislature della Repubblica, quando la maggioranza dei cittadini non poteva esibire un formale titolo di studio, che oggi, in un’Italia di acculturati e iperconnessi. In realtà la Costituzione e l’organizzazione dello Stato che in essa viene disegnata, ci toccano, eccome. Per capirci: non è la stessa cosa se al vertice dello Stato c’è un super partes come Mattarella, garante dell’equilibrio costituzionale, oppure un Presidente all’americana, uno come Trump, parte in causa perché capo del Governo.
Ma, oltre al merito, ai contenuti delle riforme, esiste una questione preliminare di metodo, che è fondamentale.
La Costituzione è di tutti e non solo dei partiti di governo. Si può riformare con i numeri richiesti dall’articolo 138, che sono quelli della maggioranza assoluta (con successivo referendum popolare) o quella dei due terzi (senza confronto referendario). La presidente Meloni ha proceduto con consultazioni con tutte le forze parlamentari, si immagina non per mera cortesia, ma per cercare una base di consenso più larga di quella del governo. Si è parlato di Commissioni bicamerali, espressione che reca in se’ il sapore di antico perché evoca tre prodigiosi insuccessi con i nomi di Bozzi, Iotti-De Mita e D'Alema ( a cui si aggiunge anche una Convenzione per le Riforme, avviata dal Governo Letta con la benedizione di Napolitano). Tutte le esperienze svilupparono un'importante accumulazione documentale per gli studiosi ma produssero nulla di concreto sul piano degli esiti. E si capisce anche il perché: il lavoro delle bicamerali ritorna alle Camere, dove la maggioranza assoluta richiesta dalla procedura del 138 Cost. coincide con quella che sostiene il governo. Domanda: si può giungere alla norma condivisa da tutti se a regolare il traffico è la stessa maggioranza politica votata dai cittadini per sostenere il governo?
Diremmo proprio di no, almeno sul piano politico. A maggior ragione non sarebbe «politicamente» consigliabile fare riforme d'impianto alla maniera di Berlusconi o Renzi, entrambi provvisti di larghe maggioranze di governo usate per approvare le riforme poi bocciate con referendum popolare.
L’esperienza, dunque, ha chiarito l’inadeguatezza, almeno dal punto di vista politico, dello strumento di revisione costituzionale predisposto per limitate correzioni dell'impianto attuale. Il punto è che nella nostra Costituzione non si fa una distinzione esplicita tra la revisione parziale e quella totale, come invece avviene in altri ordinamenti costituzionali come quello spagnolo, austriaco o svizzero,che fanno riferimento a procedure diverse nel caso di interventi organici e profondi.
La verità è che quando si tocca una parte importante del sistema costituzionale non lo si può fare con interventi «chirurgici», ma ci vuole una «visione» più larga, perché si rischia di scardinarne la coerenza interna, come si è fatto con l’improvvida riduzione dei parlamentari o la riforma del titolo V.
Come procedere, allora? Un modo sarebbe quello di ridare la parola agli italiani per eleggere una piccola costituente, istituita con legge costituzionale che ne fissi le competenze limitandole ad aspetti precisi relativi all’ organizzazione dello Stato. I requisiti: metodo proporzionale- per consentire il pluralismo delle culture politiche-con voto di preferenza, perché gli elettori devono poter guardare in faccia i propri rappresentanti, un anno di tempo per lavorare, referendum popolare per sanzionare il patto finale col popolo. Un’utopia? Forse, se la politica si trincera nell’orto maleodorante del proprio modesto interesse. Una procedura inclusiva, invece, se la politica si apre, facendo così bene anche a se stessa.