Affonda sin nella critica al Barbarossa l’argomentazione di alcuni studiosi che ritengono il «centralismo responsabile dell’arretratezza del Mezzogiorno: sarebbe stata quella imposizione a frenare lo sviluppo autonomo di comuni e territori, impedendo che anche al Sud si producesse l’emancipazione sociale e la crescita economica diffusa, caratteristiche della realtà medievale di altre parti dell’Italia.
Pur senza bisogno di rinvangare tempi tanto lontani, varrà notare che «la questione meridionale» sin dalla sua genesi fu attraversata da un afflato certamente unitario ma nient’affatto centralista. Si potrebbe persino affermare che la necessaria autonomia politica e istituzionale del Meridione e delle sue genti fu trasversalmente evidenziata dagli esponenti di tutte le culture politiche che si sono confrontati con l’inveterata «questione».
In tal senso, una brevissima rassegna non può che prendere le mosse dal conterraneo Gaetano Salvemini - lo si potrebbe definire un socialista umanitario - che non solo legava l’auspicato sviluppo del Mezzogiorno a un assetto federale (da qui la sua fascinazione per Carlo Cattaneo), ma riteneva anche che per sconfiggere il giolittismo (a suo dire causa di ulteriore ritardo) sarebbe stato indispensabile autonomizzare politicamente le masse contadine del sud. Proprio a tal fine intraprese una dura lotta contro il protezionismo. Era quello il vincolo che, nella sua visione, avrebbe tenuto insieme gli interessi legati allo sviluppo industriale del nord e quelli del latifondo del sud, in un assetto rigidamente centralista.
Salvemini offrì lo schema sul quale avrebbe lavorato il comunista Antonio Gramsci, declinandolo in senso non riformista ma rivoluzionario. Per inverare la rivoluzione in Italia, era necessario creare un «blocco storico» saldando gli operai del nord ai contadini del sud e tale risultato lo si sarebbe raggiunto solo disarticolando il potere centrale.
Più spostato sul versante istituzionale fu l’approccio alla «questione» da parte della cultura cattolica. Basta a tal riguardo menzionare il regionalismo di Sturzo, lo spazio che ebbe nei programmi originari del Partito Popolare e come l’eco di quella ispirazione originaria sia giunto a investire la Costituzione del 1948. La galleria potrebbe ancor più arricchirsi e ampliarsi ma, per farla breve, si può ricordare come persino il più unitario tra tutti i meridionalisti storici, il liberal-conservatore Giustino Fortunato, riteneva impossibile qualsiasi programma di redenzione del Sud senza l’autonomia della sua società civile.
Tutte queste analisi, diverse per approccio e impostazione, hanno un minimo comune denominatore: la consapevolezza del fatto che l’unità della nazione è derivata da una «forzatura centralista». Molti dei national builders, in teoria, avrebbero preferito una diversa soluzione ma dovettero cedere il passo alle condizioni storiche e alle conseguenti necessità. Per una sorta di processo di reazione, quella matrice originaria ha poi ispirato anche le politiche di riequilibrio: gli interventi a favore del Mezzogiorno avrebbero risposto a uno schema non meno centralista del processo che li aveva resi necessari. Essi però - con la sola eccezione del primo periodo della Cassa per il Mezzogiorno - hanno tutti avuto esiti meno positivi di ciò che sarebbe stato necessario e giusto attendersi.
Perché ricordare questi antecedenti? Perché il governo sembra aver deciso di limitare il proposito di una revisione del nostro assetto istituzionale alla sola legge sulla cosiddetta «autonomia regionale». Questa riduzione del programma originario, qualora fosse confermata, non sarebbe una buona notizia. Le istituzioni rispondono, infatti, a architetture complesse: se non si interviene sui dettagli (e l’autonomia regionale certamente non può essere considerata tale) è veramente difficile toccare una struttura senza dover ripensare il più complessivo meccanismo di pesi e contrappesi.
È questa la ragione per la quale non mi stancherò di consigliare all’esecutivo e a chi lo presiede di non archiviare il tema della «grande riforma». Se però la perorazione dovesse cadere nel vuoto, quanti fin qui hanno evidenziato i tanti limiti della legge sul regionalismo asimmetrico, dovrebbero evitare di trasformare la loro critica in una crociata contro l’autonomismo. È questa la lezione che ci proviene dalla migliore tradizione meridionalista.
Assai più saggio e produttivo sarebbe concentrarsi su limiti e aporie di un testo che, certamente migliorato strada facendo, resta ancora lontano dallo scongiurare un aumento delle già tante e gravi difficoltà del Sud. Giungere a un autonomismo non punitivo per il Mezzogiorno d’Italia: è questa la sfida che dovrebbe accettare a volto scoperto una nuova classe politica meridionale e meridionalista, della quale si avverte sempre più il bisogno.