Un Ruby Wednesday per il Cavaliere, un mercoledì scintillante da lungo tempo atteso. Se è buona regola non commentare una sentenza non definitiva, tanto più quando non è ancora nota la motivazione, è anche vero che una sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste» - la formula più favorevole per l’accusato - si presta a considerazioni a caldo - ovviamente suscettibili di «riletture» in seconda battuta - non approssimative.
Silvio Berlusconi, insieme ad altri 28 imputati, è stato infatti assolto ieri dal Tribunale di Milano nel processo noto come Ruby ter iniziato circa sei anni fa come costola del più famoso caso Ruby (e del relativo processo), esploso la sera del 27 maggio 2010 quando una diciassettenne marocchina, Karima El Mahroug (conosciuta come Ruby Rubacuori), viene accompagnata per essere identificata negli uffici della Questura meneghina dove giunge una telefonata del Cavaliere - all’epoca Presidente del Consiglio - tesa (secondo l’accusa) a favorire indebitamente il rilascio della ragazza. La vicenda processuale si conclude nel 2015 con l’assoluzione di Berlusconi dagli addebiti di concussione e prostituzione minorile.
Il Ruby ter, invece, riguarda le accuse di corruzione in atti giudiziari e di falsa testimonianza formulate a carico di varie persone per il comportamento tenuto nel processo principale.
Ebbene, da un inusuale comunicato del presidente del Tribunale di Milano, contestuale alla decisione (nei fatti una sorta di pre-motivazione assai sintetica, peraltro fornita dal capo dell’ufficio in linea con le direttive del CSM in materia di corretta comunicazione istituzionale), apprendiamo che la decisione di assoluzione «perché il fatto non sussiste» si fonda sull’assoluta carenza di materiale probatorio in quanto le persone sentite come testimoni erano in realtà persone indagate di reato connesso. Da qui non solo l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese ma anche la non configurabilità del reato di falsa testimonianza che presuppone, per la sua sussistenza, la qualifica di testimone; qualifica che non è attribuibile alla persona indagata di reato connesso.
Si dirà che si tratta di un ragionamento tecnico, di considerazioni di carattere formale, ma così non è perché il processo penale - in un ordinamento democratico - ha delle regole e ciò che conta è la verità giudiziale, la verità cioè che emerge dal processo nel rispetto di quelle regole le quali possono portare ad escludere dal panorama cognitivo del giudice ciò che in astratto potrebbe costituire prova. Non sappiamo, del resto, quale esito avrebbe potuto avere il processo se le testimonianze escluse fossero state ritenute inutilizzabili. E questo, ovviamente, vale sempre, indipendentemente dalla notorietà dell’imputato.
Se mai è singolare che la Presidenza del Consiglio abbia revocato, poche ore prima dell’udienza, la costituzione di parte civile promossa nel 2017 da Paolo Gentiloni, argomentando sulla politicità e sulla soggettività delle valutazioni fatte a suo tempo e sugli sviluppi giudiziari della vicenda intervenuti successivamente. Se, infatti, il Capo del governo ha legittimamente esercitato una sua prerogativa, è sul piano dell’opportunità - anche per le cadenze temporali adottate - che sorge qualche perplessità, tenuto conto del possibile implicito condizionamento (magari non voluto) dell’organo giudicante.
Un «processo politico», in definitiva, quello di cui si è appena concluso il primo round. Come «politico» è stato - soprattutto per le sue ricadute – il Ruby major. Difficile negarlo. Ma non perché si tratta di processi illegittimamente instaurati, naturalmente. Piuttosto, per l’esorbitante rifrazione mediatica e per l’uso ampio a livello di propaganda che ne è stato fatto da parte dei contendenti politici. Vicende giudiziarie che hanno alimentato quello scontro politica-magistratura in atto da molti anni e - potremmo dire - cifra distintiva del nostro Paese in questo primo scorcio del nuovo millennio.
A farne le spese, lo sappiamo, la classe politica da un lato - fortemente delegittimata al di là delle responsabilità personali - e la magistratura dall’altro, che - per i comportamenti di taluni - ha progressivamente perso (anche per contraddizioni e vizi interni) quell’aplomb e quell’autorità che possono derivare solo da una terzietà e da un’imparzialità autenticamente praticate (e non solo declamate). La giustizia ridotta a scontro, i cittadini ricondotti a tifoserie contrapposte. E il diritto, purtroppo, considerato una semplice variabile dipendente.