Sabato 06 Settembre 2025 | 06:36

Ma quel neonato a Roma è morto soffocato da una sanità «malata»

 
Valentina Petrini

Reporter:

Valentina Petrini

Ma quel neonato a Roma è morto soffocato da una sanità «malata»

È sempre una tragedia ad aprirci gli occhi davanti ad ataviche carenze: del personale, il blocco del turn over, turni massacranti, violenza ostetrica, depressione e stanchezza post-parto. Mai ad intervenire prima che il fattaccio accada

Giovedì 26 Gennaio 2023, 13:59

Sarà per sempre e per tutti la mamma che ha soffocato il suo bimbo appena nato perché si è addormentata nel letto dell’ospedale mentre lo allattava. Non importa cosa stabiliranno le indagini. Questa versione si è ormai cristallizzata.

Sul caso drammatico del neonato morto all’ospedale “Pertini” di Roma stanno emergendo le prime testimonianze, come quella della compagna di stanza della donna che sarebbe stata la prima a dare l’allarme. Hanno parlato i genitori del piccolo morto. Il papà: «La mia compagna era stremata dopo 17 ore di travaglio, ha implorato più volte il personale di portare il piccolo al nido per poter riposare un po’. Non ce la faceva più. Ma la risposta era sempre “no, non si può”».

Sarà la Procura di Roma - che ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo, al momento contro ignoti - a fare chiarezza e ad accertare le reali cause del decesso e le eventuali responsabilità del personale del reparto.

È sempre una tragedia ad aprirci gli occhi davanti ad ataviche carenze: del personale, il blocco del turn over, turni massacranti, violenza ostetrica, depressione e stanchezza post-parto. Mai ad intervenire prima che il fattaccio accada.

Da donna, madre, cittadina, giornalista, mi tormentano due domande: potevamo raccontare diversamente questa tragedia? Da quando la pandemia Covid si è abbattuta su di noi le cose negli ospedali vanno meglio o peggio? Sulla prima, la mia risposta è lapidaria: sì, potevamo e dovevamo scrivere diversamente. Attendere gli esiti dell’indagine prima di titolare: «Neonato morto soffocato dalla madre mentre lo allatta». Un titolo che sottende una colpa, quella della madre per non essere stata vigile (o attenta). Ci sono di mezzo le vite personali, i drammi individuali e familiari, il dolore e i sensi di colpa con cui a vita si dovrà convivere. Sento sempre più il peso della scelta delle parole giuste.

Non mi torna nemmeno la schizofrenia verso il corpo infermieristico e medico. A volte sono gli angeli in corsia. Ve li ricordate i video del personale stremato impegnato a salvare vite umane nel primo lockdown? Altre volte sono demoni negligenti, assenteisti che si nascondono dietro maternità o la legge 104.

Avevo 26 anni la prima volta che sono entrata con una microcamera in un ospedale. Oggi ne ho 43. Ovunque lo scenario è peggiorato: solo a Roma mancano 7mila infermieri. I reparti si ridimensionano o chiudono, i tempi delle liste d’attesa si allungano; negli ospedali si lavora male; si registrano aggressioni e denunce. Sulle linee guida della Ginecologia può anche esserci scritto «controllare ogni 10-15 minuti le mamme con il loro neonato», ma c’è il personale per farlo?

Arrivo alla seconda domanda: grazie al Covid la situazione è migliorata? Mio figlio è nato in un ospedale pubblico, il 28 marzo 2020. Diciotto giorni dopo l’inizio del primo lockdown. A parte il caos, comprensibile vista l’assenza di certezze in quel momento (per esempio non c’erano mascherine, nessuno ci aveva detto che dovevamo indossarle, ma quando arrivai in pronto soccorso perché si erano rotte le acque mi dissero che dovevo averne una chirurgica; me la diedero loro e l’ho tenuta per tre giorni, non ce n’erano altre) tutto il romanticismo che mi ero immaginata si è infranto subito. Ero sola, le infermiere si tenevano a distanza. La notte in cui ho partorito c’era un solo anestesista su più reparti. È arrivato da me dopo che erano già otto ore che mi contorcevo per i dolori e chiedevo che mi venisse somministrata l’epidurale. Quando mi ha fatto l’iniezione sulla colonna vertebrale avevo molti spasmi e lui mi sgridò: se sbaglio rischio di paralizzarla, deve stare ferma.

Da quando è nato, dopo 16 ore di travaglio, Valerio è rimasto sempre con me. Si è allontanato giusto il tempo del primo bagnetto. Non sapevo come attaccarlo al seno. Più volte ho chiamato le infermiere per chiedere aiuto. Mi spiegarono a distanza quello che dovevo fare. Insomma mi dovevo arrangiare. Non c’era mia madre, le mie amiche. Solo il mio compagno per qualche ora è stato in sala travaglio. E poi poteva visitarci un’ora al giorno. Andavo in bagno solo quando c’era lui. La doccia me la sono fatta al rientro a casa. Facevo lunghe videochiamate a lui e a mia mamma per tenermi sveglia.

Non ho nulla da recriminare, non porto dentro un ricordo negativo delle ostetriche, delle infermiere o dei medici. Sono consapevole che in parte quell’isolamento che ho vissuto con mio figlio era anche dettato dal rischio contagio. Dopo di me altre donne hanno partorito con protocolli più strutturati. Alcuni più lungimiranti altri meno. Insomma non punto il dito contro nessuno, solo una considerazione: la violenza ostetrica (purtroppo), la poca cura nei confronti della madre, sono fenomeni che esistevano anche prima del Covid, ma con il Covid la situazione è peggiorata. La solitudine delle partorienti è aumentata e ha reso più dolorose ancora alcune esperienze.

Me lo raccontano molte donne. Lo tsunami Covid anziché migliorarci ci ha peggiorati. «Mai più», si era detto mentre applaudivamo dai balconi il personale ospedaliero: mai più carenze, mai più tagli, mai più impreparati. Mai più... E invece!

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)