Riforma della giustizia: un percorso obbligato al di là degli schieramenti
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Sergio Lorusso
Se il 2022 è stato un anno piuttosto vivace per le riforme della giustizia - in primis per il completamento dell’iter della riforma Cartabia - il 2023 si preannuncia come ancora più significativo, stando almeno ai «buoni propositi»
Giovedì 12 Gennaio 2023, 14:23
Se il 2022 è stato un anno piuttosto vivace per le riforme della giustizia - in primis per il completamento dell’iter della riforma Cartabia - il 2023 si preannuncia come ancora più significativo, stando almeno ai «buoni propositi» manifestati dal nuovo esecutivo e in particolare dal guardasigilli Carlo Nordio: sempre che, naturalmente, gli intendimenti si traducano in realtà. Le riforme annunciate, difatti, investono addirittura l’architrave costituzionale del nostro sistema processuale penale. Mutamenti di tale portata investono – e plasmano – l’idea stessa di giustizia che l’ordinamento (e dunque la società) propugna, non sempre coincidente con quella che ciascun cittadino ha. Ora, prima di assecondare o disapprovare una riforma dei fondamentali del processo penale in ragione delle sue ascendenze politiche, occorrerebbe comprenderne - senza pregiudizi - ratio ed effetti. Riforme (costituzionali) di così ampia portata devono rifuggire insomma da elementari logiche di schieramento. Vediamo, in sintesi, le linee d’intervento preannunciate.
Discrezionalità dell’azione penale. Intanto, come ci ricorda Franco Cordero, il termine «discrezionalità» può rivestire almeno tre significati. Da quello «forte», alieno fino ad oggi al nostro ordinamento, che è tipico della tradizione di common law e che consente all’organo dell’accusa di scegliere di esercitare o meno l’azione penale sulla base di valutazioni metagiuridiche (nell’ottica della cosiddetta «individualised justice»); a quello – derivante inevitabilmente dalla prassi – di gestione discrezionale delle priorità, sotto un duplice profilo. Occorre decidere, difatti, di fronte alla mole di procedimenti pendenti, quali debbano essere approfonditi per prima, su quali debbano essere concentrate l’energia e l’attenzione degli organi inquirenti a scapito di altri che, verosimilmente, cadranno sotto la scure della prescrizione. Occorre, poi, valutare all’esito delle indagini preliminari quali di essi possiedano i requisiti per sopravvivere al vaglio dibattimentale.
Non si tratta, allora, di rinnegare l’obbligatorietà (che è, di fatto, solo un mito e che – sono parole del ministro della Giustizia – si è trasformata in un «intollerabile arbitrio»), ma piuttosto di stabilire pragmaticamente quali margini di discrezionalità il sistema voglia accettare. Non è un caso che proprio la riforma Cartabia parli di priorità nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali individuati per legge dal Parlamento, rimandando – sulla falsariga delle circolari emanate nel passato da importanti Procure – «ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio». Separazione delle carriere. Altro punto fondante del programma per la giustizia del nuovo governo è quello della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, tesa a superare una «simbiosi ormai secolare» (ancora Cordero) e oggetto di una contesa ultraventennale tra le forze politiche (e non solo). Un’ipotesi eversiva, come taluni paventano? O piuttosto un adeguamento del sistema coerente con le coordinate che lo ispirano?
Ebbene, i pareri di autorevoli giuristi (certo non degli estremisti) convergono da tempo nella medesima direzione, per una ragione concettuale che deriva oggi dal testo novellato dell’art. 111 della Costituzione chiaramente orientato in favore della terzietà del giudice – che dell’imparzialità è la premessa – e dei canoni del modello accusatorio (invocati a chiare lettere anche dalle radici del codice 1988): la separazione è necessaria (Sabino Cassese); «ritengo che sia ineluttabile, non dico da oggi a domani ma ineluttabile, proprio ineluttabile» per garantire la terzietà (Giovanni Conso); «comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste […]. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale» (Giovanni Falcone). Solo un atteggiamento open minded da parte dei protagonisti della scena legislativa, in definitiva, potrà condurre in porto la barca con i “buoni propositi” per la giustizia salpata all’alba del nuovo anno e che, altrimenti, avrà una navigazione incerta e perigliosa nel mare magnum dell’agone parlamentare.