Non ha fatto come il neo premier inglese conservatore Rishi Sunak, come lei quarantenne, da poche settimane al timone del governo e che ha appena firmato la sua prima manovra economica. E non ha ripetuto lo schema di rottura politica dell’esecutivo gialloverde M5S-Lega guidato dall’avvocato Giuseppe Conte in veste di garante del contratto di governo (con vicepremier e ministro Matteo Salvini, oggi al suo fianco in posizione analoga) che alla sua prima legge di bilancio, nel ottobre 2018, partì lancia in resta all’attacco dell’Europa annunciando anche dal balcone di Palazzo Chigi la «fine della povertà».
No. Giorgia Meloni ha trovato nel ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, leghista-realista-compatibilista di provata esperienza (nel 2012, ai tempi del governo tecnico Monti, fu tra i protagonisti in Parlamento della partita che portò all’approvazione della legge costituzionale per il pareggio di bilancio) un alleato prezioso anche per calmierare i persistenti bollori dei due leader alleati, Salvini e Silvio Berlusconi. E poi, soprattutto, ha giocato la carta del «bilancio familiare come approccio» in una condizione di risorse scarse che imponeva scelte prudenti e non avventuriste.
Naturalmente rivendicando le scelte politiche del suo governo, il primo diretto da una donna, il primo di destra dell’Italia repubblicana. Ma evitando, con un occhio rivolto all’Europa politica e l’altro rivolto ai mercati che devono finanziare il terzo debito pubblico del mondo, di presentarsi come una «sfascia- carrozze» o come un premier alle prime armi che tentenna sul da farsi.
Siamo al primo atto della partita e, va detto subito, dovremo attendere alcuni giorni per capirci di più. Conta il testo che verrà presentato alle Camere per l’approvazione (tempi molto stretti, se si sfora il 31 dicembre si va all’esercizio provvisorio di bilancio e non sarebbe certo una bella figura per la maggioranza) e che sarà trasmesso a Bruxelles. Conta il processo di «bollinatura» dei provvedimenti, con la verifica minuziosa delle coperture finanziarie, che verrà fatto dalla Ragioneria dello Stato. Contano insomma tutti i dettagli e le (inevitabili) sorprese piccole e grandi che emergeranno dalla stesura definitiva. Solo per fare un esempio, la ricomparsa degli aumenti sulle accise di sigarette e tabacco riporta alla memoria i «decretoni» degli Settanta del secolo scorso.
Punti di forza e di grande debolezza s’incrociano in questa manovra dove tutte le componenti della maggioranza possono dire ai propri elettori di aver fatto passare le proprie idee. Dalle tre «tasse piatte» alla tregua fiscale (annullati anche gli aumenti automatici previsti per le violazioni del Codice della strada, chi passa col rosso non pagherà di più, cosa più che discutibile). Dalla revisione del reddito di cittadinanza (ma passando per una fase di transizione, anche perché la «piazza» evocata a sproposito dall’ex Presidente del Consiglio Conte preoccupa, e non a torto). Dal (piccolo) aumento delle pensioni minime al taglio del cuneo fiscale riservato ai lavoratori (3 punti, di cui due già messi in pista dal governo Draghi) e ai prepensionamenti di quota 103 per il 2023 (la legge Fornero non è affatto superata come si sente dire), il puzzle della legge di bilancio è stato composto con cura politica e presentato come il primo passo sulla strada di una legislatura che dura (sulla carta) cinque anni.
Potevano Meloni e il suo governo fare di più? A Londra, dove è in carica il nuovo governo conservatore nato sull’onda del disastro della premier Liz Truss (che presentò una manovra tutta a debito bocciata dai mercati), Rishi Sunak ha voltato pagina con un piano di forti tagli alla spesa pubblica per circa 30 miliardi di sterline ma non togliendo una sterlina dal budget di 20 miliardi per ricerca e sviluppo e alzando i finanziamenti per sanità e istruzione. In Italia questo cambio di passo ancora non si vede: la famosa revisione della spesa è al momento affidata a un taglio di 800 milioni nel 2023 su un monte di mille miliardi di spesa pubblica annua. Su sanità e istruzione non ci sono scelte forti, mentre si annuncia una nuova legge delega per il fisco a gennaio. E c’è da notare che sembra ridimensionato, per la politica industriale, il pacchetto di incentivi fiscali Transizione 4.0. Così come si vedrà solo leggendo il testo definitivo della legge di bilancio se le misure per il Mezzogiorno in scadenza alla fine del 2022 (mentre il vice premier Salvini parla del Ponte di Messina e della direttrice europea Reggio Calabria-Berlino) verranno prorogate.
E poi, per stare a quei 21 miliardi (su circa 35 complessivi della manovra) destinati giustamente a fronteggiare il caro bollette per famiglie e imprese e raccolti facendo ricorso a nuovo deficit è opportuno ricordare che il loro impatto scade a fine marzo 2023. Cioè molto presto. Poi, che si farà?