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Giocare con la Carta? Non si sa mai come può finire

 
Pino Pisicchio

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Pino Pisicchio

Il Parlamento recuperi sùbito il proprio ruolo

Occorrerebbe una politica capace di visione. E invece siamo alle piccole baruffe «chiozzotte» senza, però, l’arte di Goldoni

Lunedì 21 Novembre 2022, 14:31

Manca una manciata di ore alla candelina del primo mese dall’entrata in carica del governo meloniano e già il carnet delle opere, parole e omissioni (senza far mancare qualche gaffe) comincia a diventare fitto come un rosario tibetano. Così, mentre la presidente appare impegnata in un tour internazionale che punta alla legittimazione- assistita in questo sforzo solo dal ministro Valditara che prende distanze dall’orrore delle leggi razziste di Mussolini- nella sua maggioranza prende il volo la gara a piantare le bandiere identitarie. Sono, stavolta, le nuove parole ipnotiche dell’«autonomia differenziata».

Sembra tornato il tempo di Bossi e dell’intelligenza mefistofelica di Miglio, politologo blasonato, del federalismo brandito come un’accetta, solo un passo dalla secessione. Solo che il mefistofelico era intelligenza pura, visione, ironia urticante e Bossi, non certo un accademico, ma, come si dice, era scarpa grossa e cervello fino. Qui c’è Calderoli. Sardonico, quasi zuzzurellone (come definire altrimenti l’inventore del «porcellum»), furbissimo incastratore di congegni a base di commi e codicilli. Ma nulla a che vedere con Miglio o Bossi. Così si allestisce il bouquet identitario degli opposti: lo statalismo della Destra/Destra, con la bandiera dei nuovi poteri a Roma Capitale e l’autonomismo pseudo-federalista della Lega. L’unico punto di connessione il presidenzialismo che sembra andar bene a tutti i coalizzati. Sulla bozza Calderoli del disegno autonomista si è detto e scritto parecchio in questi ultimi giorni.

Vale solo la pena di ricordare che il lungo catalogo delle «materie di legislazione concorrente» tra Stato e regioni, è scolpito nella Costituzione, nell’articolo 117, voluto dal centro-sinistra nella stagione dell’innamoramento federalista (2001) e la previsione di «condizioni particolari di autonomia» è esplicitamente indicata nell’art.116, risalente alla stessa riforma. Per cui è pur vero che l’impasto calderoniano può presentarsi come una forma traversa di secessione delle regioni ricche, ma qualche volta ricordiamoci pure che giocando a rifare la costituzione come fosse un regolamento condominiale, può accadere che si predisponga il terreno per una eterogenesi dei fini che rivolta tutto contro. Nel merito c’è sicuramente il problema del vulnus all’unità nazionale prodotto dallo squilibrio tra le regioni «ricche» e le altre, che contrasta con i principi di uguaglianza sanciti dall’art. 3 della Costituzione, soprattutto perché non si è mai provveduto a stabilire i criteri con cui debbono essere determinati i livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato è tenuto a garantire in chiave di perequazione tra le regioni. Ma per aggiustare il tiro non c’è la garanzia parlamentare offerta dalle procedure delle riforme costituzionali, perché nonostante l’intervento su cui lavora il ministro «per le Regioni e l’Autonomia» (nomina sunt consequentia rerum..) incida fortemente sull’impianto costituzionale, la fonte delle nuove norme è già scolpita in Costituzione.

Dunque non resta oggi che affidarsi al buon cuore della signora Meloni, la quale avrebbe già fatto sapere che presidenzialismo, Roma Capitale e Autonomia differenziata fanno parte dello stesso bouquet e vanno approvati insieme. Così riforme costituzionali e legge quadro avrebbero una gittata temporale dettata dalle procedure dell’art.138 della Costituzione: mesi e mesi. D’altro canto, la legge di Bilancio è già una gatta abbastanza grossa da pelare per aggiungere altri problemi. Che dire? Ci fosse stata una sola ragione per sostenere la riforma costituzionale di Renzi questa era legata alla correzione della riforma-manifesto del titolo V del 2001, un impianto ideologico che lasciava aperte inserzioni al limite del federalismo senza prefigurare, però, una forma-stato federale . La verità è che non si fanno le riforme a spizzichi e molliche. Occorrerebbe il coraggio di una convenzione nazionale per le riforme costituzionali eletta dal popolo per disegnare un profilo coerente di nuovo assetto dello stato-organizzazione.

Occorrerebbe una politica capace di visione. E invece siamo alle piccole baruffe «chiozzotte» senza, però, l’arte di Goldoni. A proposito: in questi giorni ricorre il duecentosessantesimo anniversario della prima rappresentazione delle Baruffe a Venezia. Da allora la politica italiana non ha più smesso con le repliche.

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