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Una donna sola al comando: Giorgia prima premier, ma meno presenze femminili

 
Michele Partipilo

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Michele Partipilo

Giorgia Meloni incontra Berlusconi: «Massima unità d'intenti nel centrodestra. Daremo risposte ai problemi urgenti»

Per la prima volta nella storia repubblicana al vertice del governo siede una donna

Martedì 25 Ottobre 2022, 15:05

Per la prima volta nella storia repubblicana al vertice del governo siede una donna, Giorgia Meloni. Vi è arrivata per precisa volontà popolare, visto che il suo partito, cresciuto dal nulla, ha vinto le elezioni del 25 settembre. Una svolta nella vita sociale e politica dell’Italia? Sì, ma meno di quanto si possa credere, poiché sullo sfondo resta la ritrosia dei partiti a dare spazio alle donne.

Nel nostro Paese il potere maschilista si arrocca sulle sue posizioni e anzi le rafforza, alla faccia di campagne pubblicitarie, «giornate» delle donne e propaganda sull’uguaglianza. Siamo all’abc dei diritti di genere, come pensare di poter affermare i diritti delle persone Lgbtqia+? Non si tratta della presunta omofobia del nuovo presidente della Camera, se fosse vero sarebbe il male minore. Qui siamo di fronte a un problema diverso, dove il genere è un connotato del potere. I maschi sono disponibili a fare passi di lato in altri settori – l’università, l’economia, le imprese – ma in politica decisamente no. Le chiavi del Palazzo devono restare in mani maschili.

La prova provata arriva proprio dai risultati elettorali: la pattuglia femminile in Parlamento anziché crescere, come sarebbe stato legittimo aspettarsi, si è assottigliata, fenomeno che non accadeva da venti anni. Al Senato le donne sono il 34,5 per cento a fronte del 35,2 della precedente legislatura. Alla Camera il calo è stato anche maggiore: le deputate sono il 31,7 per cento rispetto al 36,8 eletto nel 2018. Il dato percentuale non racconta tutta la verità, perché in termini assoluti l’arretramento è molto più visibile a causa della riduzione del numero dei parlamentari. Nel Senato uscente c’erano infatti 111 donne e 204 uomini; oggi sono poco più della metà: 69, a fronte di 131 colleghi maschi (esclusi i senatori a vita). Un altro quasi dimezzamento anche alla Camera: si è passati da 232 a 127 deputate, che devono tener testa a 273 uomini.

Come se non bastasse, vi è da aggiungere che mentre prima c’era una sostanziale parità nelle cariche di vertice, con la presidenza del Senato affidata ad Alberti Casellati, oggi entrambe le Camere sono presiedute da uomini e mai nel totonomi dei giorni scorsi è stato ipotizzata una candidatura femminile. Si obietterà: ma c’è una presidente del Consiglio. Questo è in realtà più un argomento dialettico e mediatico che un progresso oggettivo, dal momento che anche nel governo si registra un arretramento femminile: 7 donne su 26 componenti a fronte di 8 donne su 25 dell’esecutivo Draghi e peggio anche del Conte II ugualmente con 8 donne su 25 componenti. L’esperienza italiana, poi, insegna che i presidenti del Consiglio durano meno dei parlamentari: 31 premier rispetto a 19 legislature. Infine la domanda sul futuro: potrà mai un consesso a stragrande maggioranza maschile approvare provvedimenti che contribuiscano a ristabilire una parità di genere ridimensionando così poltrone e ruoli di chi oggi è saldamente al comando?

I dati prima illustrati diventano ancora più clamorosi se si considera che la popolazione italiana è a maggioranza femminile: 30 milioni e 300mila donne contro 28 milioni e 800mila uomini. Alle urne però sono andati più maschi che femmine, il che a un’analisi superficiale porterebbe a dire che le donne non votano le donne. In realtà non è così perché l’attuale sistema elettorale non consente una scelta fra i candidati, ma solo fra i partiti, per cui la tagliola scatta a monte, quando vengono compilate le liste. In tutti questi anni nonostante dichiarazioni, buone intenzioni e vari tentativi, compresa l’introduzione delle cosiddette «quote rosa», quasi che le donne fossero animali in via d’estinzione da proteggere, molto, molto poco è cambiato. Ma si sa, se viviamo in una società liquida, liquidi sono anche gli accordi, le parole, le promesse.

È chiaro che il problema coinvolge diversi aspetti della vita sociale. A cominciare da quello economico e culturale. Nelle aree più sviluppate del Paese e con un più alto livello di istruzione la presenza femminile in politica, come in altri settori, è molto più diffusa, sfiorando quella parità di genere tanto agognata. Al contrario, nelle aree più depresse, dove sostanzialmente resta la figura della donna madre e angelo del focolare, il ruolo pubblico femminile è ancora marginale e ben lontano da ogni parità.

Se davvero si vorrà sfruttare un capitale umano inutilizzato e in larga parte inesplorato, nella auspicabilissima riforma della legge elettorale sarà necessario introdurre meccanismi che facilitino l’elezione di donne. Non però trovate di facciata che servono solo alla propaganda, come per esempio nella legge elettorale pugliese. Nonostante l’introduzione nel 2020 della possibilità di esprimere due preferenze di genere diverso all'interno della lista prescelta, le consigliere elette sono state solo 8 su 51 componenti. La dimostrazione pratica che la possibilità di scelta deve essere garantita a monte, cioè quando si formano le liste, e mantenuta in seguito attraverso il voto di preferenza. O le donne saranno sempre soggette alle strategie maschili. A meno che non vogliano seguire la strada di Giorgia Meloni e costruirsi un partito «personale». Ma questo non appare né saggio né possibile.

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