Vorrei tornare sul tema «politica monetaria», più in particolare su quello che sta facendo o non facendo la Banca Centrale Europea. Me ne dà lo spunto un intervento pubblico del Governatore della Banca d’Italia del 30 settembre scorso, ripreso dai media con qualche enfasi essenzialmente per una frase: «Ipotizzare che la BCE segua ciecamente la Riserva federale nei prossimi mesi potrebbe essere un grave errore». Ricordo che la Riserva federale è la banca centrale degli Stati Uniti, così come la BCE lo è dell’area dell’euro, e che la prima sta innalzando i tassi d’interesse più aggressivamente della seconda. La questione è molto tecnica e di difficile comprensione, come tutto ciò che concerne le politiche monetarie. Provo allora a renderla più intelligibile.
Breve riassunto. In un articolo passato (Gazzetta del 16 giugno 2022) scrissi che la politica monetaria consiste, semplificando all’estremo, nel mantenere nell’economia una quantità di mezzi di pagamento liquidi grosso modo proporzionale alla quantità di merci e servizi scambiati, perché così facendo i prezzi rimangono nell’insieme stabili, sacra missione di chiunque si occupi di politica monetaria. Che il compito di mantenere i prezzi stabili e quindi di regolare la liquidità in circolazione è affidato da almeno un secolo alle banche centrali, le quali lo assolvono convenzionalmente con lo strumento dei tassi d’interesse a brevissimo termine, che esse governano: innalzandoli quando vogliono ridurre la liquidità, abbassandoli quando la vogliono espandere. Va considerato che ciò ha ripercussioni pesanti su tutta l’economia: ad esempio, se una banca centrale riduce la liquidità per combattere tensioni inflazionistiche causerà l’effetto collaterale di rallentare l’economia, in qualche caso di farla contrarre, cioè di farla cadere in recessione.
Che ci siano tensioni inflazionistiche in quasi tutto il mondo, specialmente in America e in Europa, è sotto gli occhi di tutti. Se facciamo un confronto Stati Uniti-area dell’euro, vediamo che l’inflazione totale è più o meno la stessa, intorno all’8 per cento, mentre quella cosiddetta «di fondo» (che esclude le componenti più erratiche dell’indice dei prezzi al consumo, cioè i prezzi dell’energia e dei generi alimentari) no: negli Stati Uniti era del 6 per cento già all’inizio dell’anno, ad agosto del 6,5, nella nostra area monetaria europea solo del 2 a inizio anno, di poco superiore al 4 ad agosto. Quindi i fortissimi rincari dell’energia, che stanno trascinando tutto l’indice dei prezzi al consumo sulle due sponde dell’Atlantico e sono cominciati l’anno scorso, ben prima della guerra in Ucraina, giocano un ruolo molto più importante da noi che negli Stati Uniti, rendendo la nostra inflazione più «esogena» e meno domabile dalla politica monetaria. Per tre ragioni, ci rammenta il Governatore Visco.
La prima è che mentre il prezzo del petrolio è aumentato all’incirca nella stessa misura nei due territori (20 per cento), quello del gas è aumentato in Europa tre volte di più che negli Stati Uniti, raggiungendo i 200 euro per megawattora. Aggiungo io che, da un lato, questo fenomeno potrebbe avere a che fare col bizzarro sistema vigente in Europa per fissare i prezzi dei contratti di fornitura di gas, indicizzandoli a quello altamente speculativo di un mercato di scommesse situato ad Amsterdam; dall’altro, purtroppo il gas (prevalentemente russo fino a qualche mese fa) pesa molto di più da noi come fonte di energia che negli Stati Uniti.
La seconda ragione sta nella diversa reazione dei governi alla pandemia. Nel 2020 il PIL cadde, per effetto della pandemia, del 3,4 per cento negli Stati Uniti, del 6,4 nell’area dell’euro. Il sostegno pubblico alle famiglie, che da noi in Europa consentì al loro reddito disponibile di restare quasi immutato, negli Stati Uniti ne determinò addirittura un aumento di oltre il 6 per cento, il più alto da quarant’anni! Questo, chiamiamolo, eccesso di zelo del governo americano surriscaldò l’economia, col risultato di innescare l’anno dopo un eccesso di domanda sull’offerta (più rigida nei cicli economici) e conseguentemente un forte aumento di tutti i prezzi, non solo di quelli dell’energia.
La terza ragione sta nel fatto che, di fronte alla ripresa economica dello scorso anno, avvenuta anche in Europa, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti hanno preso a muoversi al rialzo molto di più negli Stati Uniti che in Europa (5 contro 2 per cento quest’anno), essenzialmente perché là la disoccupazione è quasi inesistente, quindi se un’impresa cerca un impiegato aggiuntivo deve attrarlo pagandolo di più. Quando le retribuzioni si mettono a inseguire i prezzi, l’inflazione si radica.
Dunque dal punto di vista delle due banche centrali, quella americana e quella europea, lo spauracchio dell’inflazione è più minaccioso là che qua, anche se il livello totale oggi è più o meno lo stesso. Ne consegue che sono giuste speditezza e severità da parte della banca centrale americana nel riportare la sua politica, accomodante per anni, verso condizioni appena più stringenti. Ricordiamo che il presidente della Fed americana è stato da molti criticato per non essere stato abbastanza tempestivo nel guidare un rovesciamento di segno della politica monetaria al primo apparire del pericolo inflazionistico.
Anche in Europa è necessario cambiare corso alla politica monetaria iperaccomodante degli anni scorsi, e la BCE lo sta facendo, ma occorre un sovrappiù di gradualità e accortezza, perché il «danno necessario» del rallentamento dell’economia sia il minore possibile. È ben vero che la banca centrale europea ha nei suoi statuti soltanto l’obiettivo della stabilità dei prezzi e a quello deve sacrificare qualunque altro pur meritorio valore, ma essa non si muove nel vuoto assoluto, non può ignorare che quel «danno necessario» può significare posti di lavoro cancellati, disoccupazione, impoverimento, sofferenze sociali. Se la frenata è troppo brusca poi il treno deraglia.