Domenica 26 Ottobre 2025 | 23:21

Quella strana idea di democrazia della sinistra italiana

Quella strana idea di democrazia della sinistra italiana

 
francesco giorgino

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francesco giorgino

Quella strana idea di democrazia della sinistra italiana

Quanto sarebbe bello vedere opposizione e maggioranza discutere, con rispetto reciproco, nel merito delle singole questioni, anziché di aspetti che non hanno il minimo radicamento nella realtà

Domenica 26 Ottobre 2025, 14:30

Se nella prima modernità occorreva liberare l’individuo dall’ideologia dominante e difendere l’autonomia del privato dall’invadenza del pubblico, nella seconda modernità gli obiettivi sono stati e sono l’equilibrio tra pubblico e privato e il tentativo di ricostruire un nuovo ordine politico, economico, sociale in nome non più del singolo, ma della comunità.

L’intento è soprattutto quello di affrontare e risolvere il problema del divorzio della politica dal potere. Parola quest’ultima che qui propongo non tanto come sostantivo, «il potere» appunto, quanto come verbo: «potere», ovvero essere messi in condizione di fare, di incidere, di generare effetti sulla collettività. Auspicabilmente effetti positivi. La legittimazione della politica in quanto sistema non è data solo dalle modalità con le quali si esercitano autorità e leadership (entrambe dimensioni ontologiche nell’esercizio, appunto, del potere), ma anche dalla capacità di agire, dalla disponibilità e dall’uso effettivo degli strumenti e dei mezzi più idonei al perseguimento di obiettivi specifici, a fronte del calcolo delle probabilità che accada qualcosa di rilevante e di socialmente utile in un determinato ambito spaziale e temporale.

Partire da questa premessa aiuta a comprendere i rischi che si corrono nell’usare con molta disinvoltura nel discorso pubblico espressioni come quella adoperata dal vertice del principale partito d’opposizione, peraltro in un contesto internazionale («democrazia a rischio con il governo Meloni») o nello scegliere toni eccessivamente allarmistici volendo ricorrere alla mobilitazione di piazza non solo per richiamare l’attenzione su problemi specifici, ma anche per provare a destabilizzare lo status quo e creare un’alternativa.

Vanno affrontate questioni di metodo e di merito. La prima questione di metodo è legata al significato stesso della democrazia. Con questo termine intendiamo anzitutto il potere «del» popolo, «dal» popolo e «per» il popolo. È evidente il legame simbiotico che si stabilisce, almeno a livello semantico, fra chi esercita il potere decisionale e il popolo. Nel primo e nel secondo caso ci si riferisce al processo di legittimazione ad agire, lo stesso che considera i cittadini aventi diritto al voto come elettorato attivo e gli eletti come elettorato passivo: detengo un potere che non è mio (è del popolo) e che io, in quanto mandatario, sono chiamato ad esercitare per conto (e al posto) del mandante. Nel terzo caso ci si riferisce al fatto che gli unici interessi che vanno salvaguardati sono quelli della collettività, appunto quelli della popolazione. Da questo punto di vista chi ha la responsabilità della deliberazione pubblica ha il compito di verificare la compatibilità tra i profitti di una o più parti, di cui sono interpreti i diversi stakeholder, e quello generale, nell’ottica del conseguimento del bene comune. È del tutto evidente che il governo Meloni abbia ricevuto un mandato pieno da parte della maggioranza degli italiani che si sono recati alle urne in occasione delle elezioni politiche del 2022. Dimenticare questo particolare, che non è di poco conto, significa assumere un atteggiamento irrispettoso delle regole stesse della democrazia e del suo significato più profondo. La seconda questione di metodo ha a che fare con quelle che il sociologo Simmel avrebbe chiamato «cerchie sociali intersecanti», frutto di reciprocità interattiva a maggior ragione nella iper-complessità tardo-moderna e in base ad un disegno che riconosce alla politica la responsabilità della guida dei processi più rilevanti, ma che contestualmente considera il peso specifico della finanza, dell’economia, della cultura (a partire dalla comunicazione) dentro il perimetro largo e lungo della globalizzazione. Perimetro reso visibile dalla logica dell’azione a distanza e dall’interconnessione tra sistemi e sottosistemi sociali. Si tratta di una situazione che non può essere considerata un’attenuante quando governa una certa parte politica ed al contrario una colpa grave (neanche lieve!) quando, invece, governa il proprio avversario. Il doppiopesismo e lo strabismo interpretativo dei fenomeni più rilevanti, specie a livello mediatico, unitamente all’eccesso di rappresentazioni polarizzate nel dibattito pubblico, rappresentano del resto una causa certa della distanza che da tempo si registra tra cittadini e sistema politico e che si traduce nel preoccupante e diffuso fenomeno dell’astensionismo.

Veniamo ora alle questioni di merito. Affrontiamole attraverso una serie di interrogativi. Dove sono i deficit di democrazia dell’attuale governo che alcuni commentatori politici pongono con urgenza al centro della riflessione pubblica? Con quali evidenze empiriche si può sostenere (peraltro con toni apodittici) che in questo momento in Italia c’è un enorme problema di libertà di stampa? Perché le ideologie (o quel che resta di esse) sono considerate un’opportunità a sinistra (tanto che si invita a non usare troppo l’espressione «progressista», poiché più debole sul piano identitario) e, al contrario, vengono vissute come un grande pericolo quando a richiamarsi ad esse sono i partiti di centrodestra? Perché i governi tecnici, alcuni dei quali sono nati per estendere la durata di esperienze politiche destinate ad esaurirsi, sono state considerate in passato come soluzioni legittime e persino auspicabili, mentre i governi costituitisi a seguito di una chiara manifestazione del «consenso abilitante», come quello Meloni, vengono accostati addirittura ad esperienze a rischio autocrazia? Perché si è applaudito al decisionismo dei sindaci e dei presidenti di Regione (specie quelli di sinistra) invocando la necessità di un maggiore protagonismo come risposta alla paralisi deliberativa, mentre se lo stesso approccio viene rivendicato dal centrodestra si parla di uomo solo o di donna sola al comando? Perché se un giornalista o un opinionista di orientamento culturale di centrodestra difende il governo viene etichettato come colui che reitera atteggiamenti servili, mentre se la stessa cosa accade nell’altra metà campo si tratta dell’esercizio di pratiche ad alto valore intellettuale e culturale?

Quanto sarebbe bello vedere opposizione e maggioranza discutere, con rispetto reciproco, nel merito delle singole questioni, anziché di aspetti che non hanno il minimo radicamento nella realtà, come appunto il pericolo che in Italia torni la stagione del fascismo o che si intraprenda la strada dell’emergenza democratica. Quanto sarebbe utile che la politica si ponesse il problema della valutazione degli effetti delle proprie scelte e adeguasse la propria comunicazione in tal senso, rinunciando alla pratica dei soli annunci e della contrapposizione frontale. Quanto sarebbe giusto se si partisse dalla valutazione realistica della situazione dei conti pubblici, così come si è stratificata nel tempo, per esprimere giudizi (anche severi) sulla politica economica e sulla legge di bilancio e, nel contempo, quanto sarebbe onesto considerare il ruolo dell’Italia nel mondo e la politica estera del governo partendo dalla complessità del quadro internazionale e dalle caratteristiche anche personali dei più importanti attori in campo nello scenario geopolitico.

Quanto sarebbe opportuno, infine, vedere il sindacato occuparsi della rappresentanza degli interessi dei lavoratori e intervenire attraverso gli strumenti a sua disposizione, ovvero la contrattazione collettiva, anziché muoversi come un soggetto partitico, sostituendosi a chi ha il compito di fare opposizione in Parlamento.

È un libro dei sogni quello che sto proponendo in chiusura di questa analisi? Assolutamente no. È solo un modo per ritornare ai principi fondanti della democrazia. È solo un tentativo di far recuperare a tutti una postura che, pur nella diversità dei propri ruoli, coltivi gli interessi del nostro Paese. L’Italia e gli italiani prima di tutto.

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