Magari finisce che ce la caviamo sopportando un paio di gradi in più di temperatura durante l’estate, così da calmierare i condizionatori per risparmiare energia preziosa. Perché questa è l’impressione (sbagliata) che si va facendo strada in un Paese in cui si fatica a fare i conti con la realtà. E dove, in ossequio ad una consolidata e debordante cultura del debito (pubblico), s’immagina che non ci siano costi da pagare e vincoli di bilancio da rispettare. Se ne occuperanno figli e nipoti, tuttalpiù.
La realtà dice che dopo due anni di pandemia (peraltro non ancora debellata), una violenta caduta della crescita nel 2020 e un prodigioso rimbalzo nel 2021, il ritorno dell’inflazione, da un lato, e l’invasione russa in Ucraina, dall’altro, sta causando problemi serissimi al nostro sistema sociale e produttivo. Tutte le previsioni, riviste al ribasso, indicano una flessione dello sviluppo e un peggioramento degli indicatori.
Il sentiero che deve percorrere il governo Draghi, così come tratteggiato nel Documento di economia e finanza (Def), è stretto e in salita. Prova in sostanza a tenere sotto controllo la finanza pubblica, a limitare l’impatto del rialzo dei prezzi (a partire da quelli dell’energia), a mantenere quanto più possibile alta la crescita (+3,1% del Pil quest’anno, previsione tra le più ottimistiche di tutte quelle in circolazione). Attuando, in parallelo, il Piano di Ripresa e Resilienza concordato con l’Europa (Pnrr) e le riforme ad esso collegate, come quelle del fisco, della concorrenza e della giustizia. Il tutto sullo sfondo dell’incertezza massima sugli esiti della guerra scatenata da Putin, nel pieno dell’emergenza gas per sottrarre l’Italia dalla dipendenza da Mosca (da qui l’ormai storica domanda di Draghi: «vogliamo il condizionatore acceso o la pace?») e cercando – il premier col sostegno pieno del presidente della Repubblica Mattarella - di tenere unita l’ampia ma frastagliata maggioranza politica su cui si regge il governo.
La realtà ci ha anche comunicato, ufficialmente, che a causa dei lavori in corso per abbassare l’inflazione che oggi viaggia in Europa a un ritmo superiore al 7%, la Banca Centrale Europea ha chiuso la stagione della politica monetaria accomodante a tassi zero, che entro l’estate riprenderanno a salire. Non solo: la BCE, che durante l’emergenza pandemica ha steso una rete di sicurezza in soccorso e a garanzia dei governi, non compra più i Btp italiani che finanziano il nostro debito, pari al 150% del Pil. Debito che nel biennio pandemico 2020-2021 è cresciuto di 268 miliardi di euro, tutti «acquistati» dalla BCE. Già, perché nei due anni passati, attraverso il ricorso allo scostamento di bilancio (procedura prevista da una legge costituzionale del 2012) governi e Parlamento hanno creato e autorizzato più deficit per quasi 200 miliardi, e dunque più debito, per sostenere famiglie e imprese con un metodo «a pioggia» di dubbia efficacia e una proliferazione di bonus e superbonus.
E ora che si fa? Il governo vorrebbe evitare di presentarsi sui mercati per finanziare il debito avendo sulle spalle un nuovo sforamento di bilancio che metterebbe a rischio il già difficile percorso di rientro dal debito e che potrebbe segnalare, a colpi di spread crescenti sui titoli, una «divergenza» italiana. Ma la politica, con la risoluzione parlamentare sul Def, ha invitato l’esecutivo Draghi a procedere su questa strada nel caso si verifichi «un peggioramento dello scenario economico».
È un’ovvietà, se non fosse che la stragrande maggioranza delle forze politiche – lo si ricava dalla lettura della risoluzione e dagli interventi nelle aule di Camera e Senato - ha già in mente un sovrappiù di deficit per decine di miliardi di euro che spazia a macchia d’olio in tutti i settori. Che poi la BCE abbia chiuso l’ombrello e che alla fine qualcuno i conti con la realtà li debba pagare sembra importare poco o nulla, dato che si avvicinano le elezioni amministrative. Del resto, la cultura del debito si nutre voracemente di amnesie e furbizie.