Con la mossa di Vladimir Putin che ha scatenato la guerra contro l’Ucraina è cambiato il mondo e stanno cambiando l’Europa e l’Italia. E dunque è più che sensato porsi il problema di come cambiare anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), l’ormai celebre documento figlio del progetto europeo Next Generation EU di cui l’Italia è la prima beneficiaria e che, a giudizio del governo Draghi, rappresenta «un’imperdibile occasione di sviluppo».
Parliamo di un impegno pluriennale (2021-2026) che fa leva su 221,1 miliardi (191,5 dal Recovery Plan europeo – di cui 68,9 di sovvenzioni a fondo perduto e 122 a prestito- più 30,6 del Fondo complementare deciso dal governo) a cui vanno aggiunti anche i 13 miliardi del pacchetto React-Eu per la coesione e i territori. Cifre importanti e impegnative, legate per tutto il periodo 2021-2026 al rispetto assoluto degli accordi con Bruxelles, che verifica lo stato di avanzamento esecutivo del Piano e procede, a rate, al relativo versamento delle quote.
L’Italia ha incassato un acconto di 24,9 miliardi ad agosto 2021 e si appresta tra poco a ricevere la prima rata 2022 di 21 miliardi dopo aver raggiunto gli obiettivi previsti per il 2021. Altri 21 miliardi arriveranno trascorso il primo semestre di quest’anno. Per il 2022 si è impegnata ad approvare 66 riforme e 102 obiettivi, tra cui 23 atti legislativi e 43 atti normativi secondari. Naturalmente dietro i numeri ci sono la politica e i suoi passaggi stretti (come dimostrano le tensioni su temi come il catasto immobiliare e le concessioni balneari) capaci di mettere a rischio lo stesso governo Draghi nell’anno che precede quello delle elezioni politiche. E sullo sfondo rimane (a solo titolo, si spera, di ammonimento per il futuro) la negativa esperienza passata in quanto a capacità progettuale ed esecutiva applicata ai fondi messi a disposizione dall’Europa.
Ma il problema è che la guerra intrapresa dalla Russia ha stravolto le prospettive economiche proprio nel momento in cui l’emergenza pandemica, di cui il PNRR della ripresa è il frutto, aveva iniziato ad allentare la sua morsa. Già prima dell’offensiva di Putin, anche per la ripresa dell’inflazione causata dal rialzo dei prezzi delle materie prime energetiche e alimentari, la crescita per il 2022 indicata dal governo (+4,7% del Pil) era arretrata nelle previsioni sotto al 4%. Ma ora stiamo scendendo ancora, e il forte calo della produzione industriale a gennaio (-3,4%, molte imprese bloccano o frenano la produzione per l’esplosione dei costi) fa da apripista a nuove, pesanti cadute. Oggi l’aumento dell’energia del 1.497,8% rispetto ai prezzi del febbraio 2020 prefigura così (per Confindustria) «danni irreversibili».
Quattro decreti con 16 miliardi di sostegni a famiglie imprese contro il caro-bollette sono scivolati via senza grandi effetti. E un’impennata del genere delle materie prime impatta- al pari del nuovo presupposto strategico: sganciarsi dal gas russo cambiando il mix energetico- sui piani di spesa previsti dal PNRR. La cui rivisitazione appare inevitabile per fare i conti con la realtà in cui siamo stati catapultati. Il premier Mario Draghi, si capisce, è molto prudente («la normativa Ue prevede la revisione da parte degli Stati membri, è un’evenienza eccezionale che richiede un nuovo processo negoziale che è prematuro prospettare») ed un accordo a livello europeo che consenta una rinegoziazione rapida e semplificata può essere una via d’uscita. Tanto più perché l’Italia ha già impegnato tutti i fondi a prestito Ue possibili (122 miliardi).
Di tutto avremo bisogno meno di un PNRR tabù intoccabile. Sulla newsletter della prestigiosa rivista il Mulino, l’economista Gianfranco Viesti ha aperto un confronto utile sul PNRR, a suo giudizio «progetto di efficientamento, ma non di cambiamento, di quello che esiste oggi» nell’Italia dei sindaci «disarmati» e del Sud visto «poco». E’ sbagliato, scrive Viesti, «fare i profeti di sventura o, peggio ancora, remare contro». Ha ragione. Ma discuterne per aggiornarlo, e se necessario cambiarlo, si deve.