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Uno, nessuno e centomila... La seduzione dei vampiri

 
Giacomo Annibaldis

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Giacomo Annibaldis

Uno, nessuno e centomila... La seduzione dei vampiri

Un dipinto di di Edvard Munch

Viaggio nell’oltretomba dello studioso barese Francesco Paolo de Ceglia col suo dizionario infernale

Domenica 25 Giugno 2023, 11:53

Di certo non si può più dire di loro: «a volte ritornano». Perché ormai i vampiri - i revenants, i ritornanti, i redivivi - sono sempre qui, a svolazzare intorno al nostro immaginario. Magari trasformandosi - come fanno i virus - in sempre più aggiornate e modernizzate varianti.

Da quando, infatti, fecero le loro prime apparizioni «documentate», agli inizi del ‘700, il loro aspetto, le loro peculiarità, le contaminazioni con altri esseri mostruosi che popolavano gli incubi umani, sono andati mutando, fino a fissarsi in una effigie consolidata: quella che gli ha fornito la letteratura, da John Polidori nel 1819 a Bram Stoker nel 1897: morti viventi, succhiasangue, dal corpo incorrotto.

Appare quindi di grande utilità per gli appassionati del genere, e per tutti i curiosi, capire come nasce il loro mito, e come si è andato sviluppando. Compito assunto da Francesco Paolo de Ceglia in un recente e fittissimo saggio per Einaudi: Vampyr. Storia naturale della resurrezione (pp. XV-415, euro 34). De Ceglia, che insegna Storia della Scienza presso l’Università di Bari, aveva già centellinato la materia in precedenti articoli e interventi. Ed ora intende fornire la storia del vampirismo dalle origini: non rinunciando a vestire anche gli abiti dell’etnologo e dell’antropologo. E nemmeno rinunciando a una narrazione accattivante: vampiresca, si potrebbe dire.

Il suo intento è di confezionare «non un semplice dizionario infernale, ma una vera e propria «catabasi vampirica»; partendo dal tardo autunno del 1731, quando emersero le prime inquietanti notizie su quell’Arnold Paole, «vampiro» serbo, nel villaggio di Medvedja, distretto di Jagodina. Il suo caso dette la stura all’indagine (1732) del medico asburgico Flückinger, il quale sentenziò nel suo reportage - avendo proceduto a varie riesumazioni – di aver trovato alcuni corpi «in condizione di vampirismo».

Era stato individuato il «paziente zero».

Perché di vero contagio si deve parlare per il vampirismo, che nei primi decenni del ‘700 si propagò nell’Europa balcanica e orientale (Polonia, Ucraina, Cecoslovacchia...).

In realtà a «innescare la reazione a catena delle morti e delle resurrezioni», e ad «alimentare e portare al parossismo il fenomeno dei vampiri», fu soprattutto «l’ansia di controllo» delle autorità austriache e la loro volontà di contrasto alle pratiche «barbariche» che venivano attuate negli sperduti villaggi per allontanare il maleficio: riesumazioni, scerpamento dei cadaveri (cuori strappati ai defunti, teste tagliate, paletti conficcati nelle carni già in necrosi...), bruciamenti: un insopportabile vilipendio. Ma, in egual misura, il successo dei vampiri, fu causato dal tam-tam garantito dalla prorompente nascita e diffusione delle riviste in tutta Europa.

I resoconti di siffatti periodici apparivano tutti da leggere; c’era la voglia di rabbrividire, mentre già incubava negli animi «quella fascinazione del gotico che nell’arco di un paio di decadi avrebbe dato forma a romanzi come Il castello di Otranto di Horace Walpole».

I resoconti governativi e giornalistici presentavano scene eclatanti, a volte addirittura orridamente lussuriose; come alcuni redivivi talmente infoiati da non rimanersene nelle tombe: correvano di notte a casa, per godere ancora del sesso con le proprie mogli (ed erano anche capaci di ingravidarle post mortem). Addirittura, a uno dei cadaveri di presunti vampiri, durante le sevizie (con impalamento), il membro si inturgidì davanti agli occhi esterrefatti degli improvvisati giustizieri... Per non parlare, poi, di riti e usanze, persino necro-gastronomiche, per rimediare al contagio: panetti di farina e sangue vampirico, da ingurgitare.

Il vampiro è uno, nessuno, centomila. Qualora si dovessero cercare le sue orme ben definite - come infine lo immaginò la letteratura -, ebbene queste latitano. Quelli che, invece, imperversano sono i «vampiroidi» - come li definisce de Ceglia -; le numerosissime varianti, che vanno dagli spettri ai lupi mannari, dagli upiri ai moroi, ai vukodlaci ai masticatori di sudarii, e via dicendo. Uno scenario nebuloso e offuscato, dove tutto si confonde.

D’altronde lo studioso provvede a smentire molti pregiudizi: come quello che fa originare questi fenomeni nel mondo islamico. O come la liaison tra il vampiro e il suo analogo nel mondo animale, il pipistrello. Invece, tutti gli animali potevano assurgere a elementi perturbanti, ma non i chirotteri. Almeno, non agli inizi. Infatti, il primo ad affibbiare il nome scientifico di vampyrus a un pipistrello della Malesia fu Linneo alla fine del ‘700: si sbagliava, perché questo suo topo-uccello non succhiava affatto il sangue (anni dopo si scoprirà in Sud America il desmodus rotundus, questo sì che sorbiva sangue dalle sue vittime ignare, mentre dormivano). Ma il capitolo più affascinante della saga resta sempre la posizione della Chiesa: non a caso lo studioso barese inizia il suo volume parlando del Cristo risorto che si presenta ai suoi discepoli e parla con loro, cammina e si ciba. E se Gesù si presenta come uno dei più illustri redivivi, questione altrettanto importante rimaneva per i teologi anche la incorruzione dei corpi, come si riscontrava in certe salme di santi.

Un ruolo interessante nel contrapporsi a questi vampiri, e al loro mito, lo ebbe il barese Giuseppe Davanzati, vescovo di Trani, che alla fine degli anni Trenta del ‘700 scrisse una Dissertazione sopra i vampiri, inviata al papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini). Che poi fu l’unico pontefice a intervenire sulla materia-tabù. Il prelato pugliese sentenziò che era tutta una «fantasia».

Ma intanto il vampiro se n’era volato lontano. Ed è ormai una «vamp» senza tempo.

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