Fui svegliato da un fragoroso boato. Qualcosa di umido e molliccio mi stava solleticando il palmo della mano. Dora guaì lamentosa premendo sulla sponda del letto, mentre nella mia testa i rumori si facevano sempre più distinti.
Le imposte imprecavano nella tempesta notturna. Fui costretto ad alzarmi.
Viene giù di brutto, valutai, prima di decidermi a spalancare le finestre per serrare le imposte.
Proprio in quell’istante il cielo fu spaccato in due da uno squarcio elettrico.
Dora abbaiò più forte al vento siderale piombato nella stanza.
Si sentiva scricchiolare il tetto nella morsa del fortunale.
Andò via la corrente. Succedeva spesso lì alla Loggia, ed io non riuscivo proprio ad adattarmi, nonostante amassi tutto di quel luogo, da quando, due anni prima, decisi di andarvi ad abitare.
Si era appena conclusa una carriera da professore di filosofia trascorsa nei licei di Bari e provincia. Era stato un brutto momento quello, per me. Non che dopo le cose fossero andate meglio, perché proprio non riuscivo a rassegnarmi alla nuova condizione.
Ho amato il mio lavoro dalla pubblicazione di “Così parlo Bellavista”, che mi ha praticamente spalancato le porte alla professione. Di fatti, quando De Crescenzo pubblicò il romanzo, io, Callisto Bellavista, venticinquenne con laurea in tasca, stavo muovendo i primi passi. Fu un tutt’uno leggere il libro e decidere per la carriera di professore di filosofia. Così, emulo del più famoso Gennaro, abbracciai la scienza della speculazione. L’abbracciai come si abbraccia una bella donna. Con immenso trasporto.
Ora potevo dirlo, ero stato molto apprezzato dai miei studenti, in parte per il bell’aspetto, in parte per quell’aria neutrale che ho mantenuto per tutti i quarant’anni d’insegnamento. Spesso alla fine delle lezioni, ripetevo ai miei studenti: “Non trascurate la poesia, perché è una zona dell’esistenza dove si va a intuito”, poi richiudevo la vecchia cartella di pelle sdrucita e andavo via. E dietro un bisbiglio unanime a commentare: - Ah, ha parlato Bellavista! - e giù risolini.
Un forte tonfo. Acc… avevo urtato qualcosa di duro…
Non riuscivo a muovere un passo là dentro, tanto il buio era fitto.
Accesi la torcia e decisi di salire in soffitta per un breve giro di controllo, poi scesi in sala, a piano terra.
Gli occhi si posarono sul giornale che avevo lasciato aperto sul tavolo; vi campeggiava a tutta pagina: MMS viaggiare con noi.
Quella crociera intorno al mondo la stavo sognando da una vita. Anni di risparmi e rinunce e adesso non sapevo se la desiderassi realmente.
La verità era che da due anni a questa parte non sapevo esattamente cosa farne di me. Scrivere potrebbe essere un buon compromesso, ipotizzai, per quanto, considerate le probabili lugubri implicazioni, era una cosa che certamente non avrei mai fatto.
Eh sì, la mia vita... un ingombro policromo affiorato nella completa inconsapevolezza, dal buio del mondo e, come tutte le altre vite, portato al suo compimento.
Non si può sopravvivere se non s’impara da subito a gestirla al meglio, la vita! E ciò ci procura ininterrotto stupore. E lo stupore è metafora della bellezza, per cui la vita è bellezza.
Era questo il tipo di pensieri che solitamente affollavano la mia mente.
Fuori infuriava la tempesta, ma in casa era tutto tranquillo.
Mi rimisi a letto con la consapevolezza che il giorno dopo avrei dovuto contare i danni dei rami abbattuti e dei frutti recisi. L’orto poi… meglio non pensarci…
Invece la mattina successiva la situazione si rivelò più catastrofica del previsto.
Durante la notte, la collina era franata a valle.
Il deposito degli attrezzi era andato distrutto, i pali dell’elettricità erano venuti giù ripiegandosi a ventaglio e fermando la loro corsa sul retro della casa.
Appena uscito, sgomento, mossi i primi passi in quell’apocalisse, in uno stato di semi-incoscienza.
Rimossi la scena della frana e, con Dora al fianco, mi spinsi a camminare oltre.
La furia del vento aveva fatto crollare il pergolato della vigna; il frutteto era devastato come se vi fosse passato un tornado; le piante dell’orto erano completamente maciullate come se fossero finite sotto un aratro.
Quasi non riuscivo a capacitarmi del fatto che provassi più dolore per quelle piantine appiattite nella fanghiglia che per la casa distrutta.
I miei passi si fecero più pesanti, mentre si allineavano ai mugolii ansimanti di Dora. Iniziammo a percorrere l’ettaro di terra che costituiva il podere della Loggia.
Fu allora che intravidi in lontananza l’avvicinarsi di sagome umane.
Con gesto automatico afferrai dalla tasca del giubbotto il cellulare, composi il numero del Pronto intervento e, a monosillabi, riuscii a raccontare l’accaduto.
Presi le distanze dalle mie stesse parole, tanto non riuscivo ancora a crederci. Ero sotto shock.
Il gruppo, intanto, si stava approssimando al cancello: - Buongiorno, possiamo entrare?
- Sì, prego - le parole mi uscirono a fatica.
- Siamo di Global Aid, stiamo facendo una ricognizione sui danni provocati dalla frana che ha colpito la zona stanotte. Qui com’è andata?
- Sono senza corrente elettrica. Solo stamattina ho potuto rendermi conto… Venite...
Un silenzio riempito da passi e respiri aggirò il giardino, fino al punto in cui la montagna era penetrata nella casa, sventrandola.
Per pura fortuna l’edificio era rimasto in piedi e ora potevo guardare con relativo distacco a tutto quel disastro.
- Pazzesco! - fu il secco commento dell’attivista con la barba, quello che pareva essere il più anziano.
Cominciarono a parlare fitto; provarono a ricostruire la dinamica degli spostamenti delle zolle, a quantificare i danni. Scattarono numerose foto. Poi arrivò una jeep a recuperarli, per continuare il giro di perlustrazione.
Prima di salutarmi ci scambiammo i contatti telefonici: - Quando vuoi chiama… siamo a tua disposizione…
Rimasi solo.
Sentii freddo ma non mi decidevo a rientrare. Così ripresi a parlare ai miei pensieri, cosa che accade spesso ad uno che ha vissuto di filosofia.
Sono qui… Ma perché a sessantotto anni sono qui, da solo?
Posso immaginare che la solitudine sia la disarmonia tra le nostre componenti interiori. O che sia l’incapacità di dialogare con il mondo, ma è anche un viaggio verso noi stessi. Quante diverse solitudini avvertivo in quel momento…
Ero in un mare di guai e stavo lì a perdermi in pensieri.
“E se dovesse accadermi qualcosa? Dove passerò la notte, in albergo? L’auto si metterà in moto?”, mi chiedevo preoccupato.
Ripensai a quei giovani intraprendenti di Global Aid. “Vogliamo dare una mano”, avevano spiegato, con gli occhi luminosi.
Rigirai il cellulare tra le dita leggendo più volte. Elpidio Global A. 340 2284771.
In quell’istante il viale s’irraggiò d’azzurro.
Le sirene dei Vigili del Fuoco e della Polizia si zittirono, mentre le auto raggiungevano il porticato antistante la casa.
Di lì a poco, come in un invariato monologo mi sentii ripartire col racconto del disastro.
L’area intorno alla casa fu recintata col nastro segnaletico di divieto di accesso. Salii in camera a fare le valigie. Dovevo muovermi prima dell’imbrunire. Mi accordai con mia sorella per andare a stare qualche giorno da lei.
“Ho preso tutto?”, mi concentrai prima di dare l’ultima mandata alla porta.
Ma quel gesto mi apparve beffardo con il retro della casa completamente sventrato.
Se fosse stata una vignetta umoristica avrei riso di gusto.
Salii in macchina e lentamente percorsi il viottolo, con gli occhi fermi sullo specchietto retrovisore. Allontanandomi ebbi la sensazione che la Loggia, di lì a poco, sarebbe stata completamente sommersa dalla neve.
In quel momento mi sentii soffocare, come se fossi stato io sepolto là sotto.
Ma appena svoltai sul viale principale, mi lasciai catturare da un pensiero indistinto: devo fare qualcosa. Cielo e mare mi apparvero come due azzurre certezze parallele e infinite. Sì, devo fare qualcosa…
Presi il cellulare e composi il numero: - Pronto?
Nel giro di due mesi riuscii a vendere la Loggia e il mio vecchio cabinato. Comprai una nave mercantile di seconda mano per trasporto passeggeri. Una snella motonave a controcoperta, con un robusto ponte principale e due ponti superiori più leggeri. Poteva ospitare una cinquantina di passeggeri più l’equipaggio.
Da trent’anni avevo la patente nautica A, ma non ero in grado di guidare quel bisonte. Sono stati i ragazzi di Global Aid, ed in particolare Elpidio, ad aiutarmi a realizzare il mio folle progetto.
Le verità, tutte le verità, sono contenute nell’incontro con una persona, mi convinsi pensando ad Elpidio. Quella frana ha spazzato via il mio passato, ma ora sento di muovermi in una zona di esistenza che respira libertà.
Dopo il corso di formazione da ufficiale nautico in Germania, ho iniziato questa mia nuova esperienza. Da qualche mese la Sunrise compie un servizio di pattugliamento nel Mediterraneo.
Non è facile individuare i natanti in difficoltà; sono come aghi in un pagliaio. Ma per fortuna c’è la ricognizione aerea che riesce ad avvistarli.
A volte è questione di ore a fare la differenza tra la vita e la morte. E qui stiamo parlando di esseri umani. Si chiamano Nesim, Aban, Aisha, Jumana. Ignorare o peggio rinnegare questa fetta scomoda di umanità è contro ogni principio di civiltà.
Siamo noi a scrivere il libro della vita, certo, e sta a noi decidere di farlo con l’inchiostro del coraggio, sulle pagine dell’accoglienza, fra le righe della fiducia.
Mi alzo all’alba di ogni santo giorno con la tenacia negli occhi e il vigore nelle mani perché l’uomo non affoghi nell’uomo.
Non vi è niente di più sensato che sostenerci l’un l’altro, penso, quando vedo una mano semiassiderata spuntare dall’acqua per agganciare la mia, ed è questo che mi regala ogni giorno la giusta speranza.
Penso all’arte giapponese del kintsugi... riparare vasi andati in pezzi mediante saldature d’oro… ne vengono fuori dei capolavori.
Io sto riparando le crepe della mia anima con colature di preziosità, mentre accendo i motori della nave puntando direzione Sud.

Dialogare con il mondo, salvare gli altri: storia di un destino cambiato all’improvviso
Lunedì 14 Dicembre 2020, 08:41