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Il racconto
Bianca Tragni
06 Novembre 2020
Erano andati a un matrimonio in Valle d’Itria, invitati una collega italiana che andava sposa nel suo paese d’origine. Erano un bel gruppo di expat, professionisti internazionali che ogni giovedì, prima del Covid, si incontravano a Bruxelles in place Luxembourg, a bere birra e a commentare i fatti del giorno. Era la movida internazionale dei rampanti facitori dell’Europa Unita. Provenienti da tutti i paesi dell’UE e anche da fuori, erano perfettamente amalgamati nel crogiuolo di tante lingue, di cui l’inglese era il minimo comun denominatore. Alla faccia della Brexit.
Kevin, inglese di Londra, conosceva già Valentina, slovena di Lubiana e, incrociandola nei corridoi del Barlyemont, dove lavoravano in diverse Direzioni Generali della Commissione, spesso la invitava a uscire insieme e lei volentieri gli si accompagnava, nella folta brigata degli eurocrati. Diciamo che c’era fra loro una simpatia, un leggero corteggiamento, un feeling che, arrivati in Puglia per la festa nuziale della collega, nonostante mascherine e distanziamenti, esplose in tutta la vigoria di un giovane amore. Galeotti furono i colori e i profumi di Puglia, i paesaggi e il fascino della Valle d’Itria, la succulenza sovrabbondante del pranzo nuziale coi suoi calici inebrianti di Negramaro, nonché l’allegria gioiosa di tutti. Così in quel trullo che la sposa aveva messo a disposizione dei suoi ospiti bruxelloises, Kevin e Valentina si amarono appassionatamente, mescolando le lingue e i corpi. E il trullo fece da pietrosa ma poetica alcova. Alternando mascherine e gel igienizzanti, tutti mangiarono, ballarono, cantarono, viaggiarono, scherzarono in quei giorni. E visto che gli era andata bene e quel soggiorno era così bello, decisero di prolungarlo per conoscere meglio la Puglia e per lavorare in remoto, coi loro computer. La pandemia così offriva un’ottima opportunità di vacanze-lavoro, in piena sicurezza. Kevin chiamò altri suoi colleghi da Bruxelles, decantando la bellezza di lavorare tuffandosi ogni tanto in un mare di cristallo, sotto un cielo di seta, con una luce splendente e ignota ai cieli fiamminghi. E soprattutto con un contagio da virus di gran lunga inferiore a quello che dilagava in Belgio. Fu così convincente che sette colleghi maschi e tre colleghe donne, presero il primo volo Bruxelles-Bari e si fiondarono in Valle d’Itria, muniti dei loro computer da smart working. Kevin aveva affittato una di quelle splendide ville intorno ad Ostuni, con bianchi portici ruscellanti di bouganville, giardini fioriti ed impreziositi da ulivi secolari, muretti a secco di sinuose forme, e infine un baretto vicinissimo dove fare la colazione italiana a base di “capcino” ibridato con “panz’roti” delizia dei palati nordici. Si installarono tutti nelle ampie stanze della villa, cosparsa di contenitori di gel e di mascherine di tutte le fogge. Cominciò così il loro South Working in splendido isolamento anti contagio.
*
“Ma che volete fare, il secondo Decamerone?” – irruppe Paolina la leccese nella villa degli eurocrati. “Whats is D’cam’roune” – fece Kevin, del tutto ignaro di lingua e letteratura italiana. “E’ un libro di novelle scritte a metà del Trecento. – gli spiegò Paolina con la sua aria saputella e in perfetto inglese - Durante la peste nera a Firenze, dieci giovani come voi, per scansare il contagio, si ritirarono in una villa in campagna e, per passare il tempo e dilettarsi, ogni giorno si raccontavano una storia. Giovanni Boccaccio ne scrisse un libro bellissimo che è un capolavoro non solo per l’Italia, ma un modello per tutta la letteratura europea, compresa la tua vecchia Albiona, testone di un inglese!” Tutti risero, ma Kevin non si arrese: “What does it have to do with England, my country?”. “C’entra, c’entra: il vostro Geoffrey Chauser si è ispirato al Decamerone di Boccaccio per scrivere i vostri famosi racconti di Canterbury. E il vostro William Waterhouse ne ha dipinto un quadro bellisimo”. “Aaah “– fece Kevin poco convinto. La letteratura era proprio fuori dai suoi orizzonti super tecnologici. Viceversa gli italiani, e Paolina in particolare, erano intrisi di arte e poesia, di letteratura e filosofia, tutte cose che, quando venivano evocate, finivano per mettere in soggezione il povero Kevin. Che comunque ne subiva il fascino, personificato da Paolina. L’aveva conosciuta alla festa di nozze, dove risplendeva raggiante in un abito stile impero, tutto di etereo tulle e finissimi ricami in oro. Sul bianco-oro troneggiava una pettinatura alta ed elaborata, con spilloni di brillanti e un civettuolo diadema, mentre un velo rosso volteggiava sulle sue spalle. Era stata la più elegante della pur elegantissima compagnia; ed anche la più ammirata e corteggiata. «Sembra Paolina Borghese…» commentò qualcuno. E qualcun altro gli fece eco ridendo «Ma lei è Paolina Bonaparte…». Infatti la bella leccese era una storica dell’arte innamorata della «Venere vincitrice» di Canova. Ogni volta che andava a Roma, andava a riammirarla e restava diversi minuti in sua contemplazione, tanto ne era fanatica. Faceva una specie di pellegrinaggio estetico, prima di tuffarsi nei suoi impegni di lavoro. Era la sua icona, il suo feticcio, il suo modello: la bellezza in assoluto. Anche la sua vita spesso, in alcuni tratti, somigliava a quella della frivola sorella di Napoleone Bonaparte. Come lei amava soprattutto i vestiti, i gioielli, le acconciature, la bellezza e l’eleganza. Ma non era fatua come la vera Paolina, che non amava la cultura. La Paolina di Lecce al contrario era coltissima e lo ostentava fino alla saccenteria e all’arroganza. Capricciosa, vanitosa e impudica, si gettava rapidamente in relazioni amorose col primo uomo che le piacesse; senza con ciò smentire il grande amore che portava a suo marito architetto. Solo che nelle sue frequenti missioni all’estero a restaurar monumenti con la sapienza e perizia italica, Paolina non sopportava di restare sola. E lo tradiva con leggerezza e allegria.
Proprio come faceva Paolina Bonaparte col primo marito generale Léclerc, luogotenente di Napoleone. Il cliché romantico-ottocentesco della sorella dell’imperatore, si ripeteva in lei in forme erotico-moderniste, condite di sapida salentinità. Infatti, irrompendo spesso nella villa di Ostuni, faceva staccare imperiosamente gli inquilini dal loro smart-working, mettendosi a ballare una frenetica pizzica-pizzica. Anche quel giorno, gettate via le scarpe e la mascherina anti covid con grazia tale da sembrare uno spogliarello, e con l’eterno velo rosso fra le mani, cominciò a saltellare al ritmo della canzone di Biagio Antonacci:
“Non vivo più senza te, anche se, anche se con la vacanza in Salento prendo tempo dentro me”. E mentre volteggiava, avvolgeva la testa e il collo di Kevin col drappo rosso. Aveva individuato in lui il drudo di turno, gli piacevano la sua ingenua ignoranza, la sua tenera faccia pallida, i suoi occhi piccoli trasparenti. Ben presto l’anglo-belga fu preso e coinvolto nella danza. Cominciò a saltare e a muoversi come meglio poteva, nel tentativo di imparare la pizzica salentina.
“E le mie mani, le mie mani, le mie mani van su, la sua bocca, la sua bocca punta sempre più a sud. La mia testa, la mia testa, la mia testa fa: signora no, (mi piaci), signora no (mi piaci), signora no (ti prego). Non vivo più senza te, anche se….”
Più il ritmo della canzone accelerava e diventava frenetico, più il flusso erotico annodava la leccese e il londinese. Fino a quando, lasciando tutta la comitiva a ballare pizzica nel grande soggiorno, i due crollarono su un divano e si avvinghiarono appassionatamente.
Arrivò in quel momento la slovena di Lubiana. Era andata ad Ostuni a fare un po’ di shopping prima della partenza che si andava avvicinando. Le si presentò una scena da baccanali, con gente scatenata nella danza, con calici di Negramaro colmi e svuotati anche per terra, con musica assordante che fuorusciva dalle casse e dai muri della villa. Staccò improvvisamente l’attacco elettrico e, col cessare della musica, cessò tutta quella baraonda. Nel breve silenzio attonito che ne seguì, vide apparire il suo Kevin discinto e la bella Paolina che con grazia e nonchalance raccoglieva le sue scarpe e la sua mascherina e andava via bellamente.
Kevin si avvicinò alla sua Valentina come per giustificarsi, ma lei, con la forza della collera che le saliva in petto, gli assestò un sonoro schiaffo. E fuggì.
Kevin la inseguì fin quasi sulla spiaggia e, raggiuntala, la prese con forza per un braccio, l’attrasse a sé e le stampò un bacio impressionante sulla bocca. La ragazza tentò di divincolarsi. Ma poi cedette…all’amore.
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