Che cosa c’entra Boccaccio con la questione meridionale? C’entra, eccome, sostiene il nuovo libro dell’italianista Giuseppe Lupo, lucano di nascita, romanziere di successo e docente alla Università Cattolica di Milano e Brescia. La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli esce domani per i tipi di Rubbettino (pp. 279, euro 18,00). La letteratura meridionale e la nostra stessa visione del Sud, esordisce Lupo, sarebbero diversi se avesse prevalso «l’aria napoletana più che toscana, con giardini di arance e odore di mare» delle novelle del Decameron (Pasolini ambientò il suo film da Boccaccio sotto il Vesuvio), un’aria lieve che ritorna nel tono fiabesco del secentesco Lo cunto de li cunti del campano Giambattista Basile. Quel «narrare angioino» della Napoli di mercanti e artigiani, cioè estroso miracoloso fantastico, nel corso dei secoli è stato invece surclassato dalla «mentalità conservativa dei dominatori spagnoli (meglio sarebbe dire la presunzione aragonese di gestire un potere politico in termini suppletivi)». Tale primato avrebbe sottratto il Sud alle traiettorie della Ragione, tanto più dopo la traumatica sconfitta della Repubblica Napoletana del 1799, bloccandolo nella dimensione della «anti-storia» o della «non storia» di cui è ancora prigioniero. Del resto, la rivolta contro il tempo storico e «il mito dell’eterno ritorno», secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, sono le caratteristiche delle società arcaiche.
Il Mezzogiorno entra nel canone della modernità a fine ‘800 - scrive Lupo - sotto il segno di Giovanni Verga con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo: «Se da Manzoni la Storia veniva osservata come luogo del riscatto per gli individui, per Verga non c’è speranza di redenzione, non esiste prova che essa, la Storia, produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini». Ecco la matrice o la quintessenza siciliana che presto si impone sul Meridione peninsulare e da cui deriva una tradizione pessimista fino alla paralisi, se non apocalittica. È la cornice nella quale Lupo iscrive - certo, con le varianti stilistiche e politiche dei singoli autori - Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), Federico De Roberto (I Vicerè), Luigi Pirandello (I vecchi e i giovani), ma anche il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Corrado Alvaro, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, e via via fino a noi, L’inferno di Giorgio Bocca, I traditori di Giancarlo De Cataldo e Gomorra di Roberto Saviano. «Se fosse prevalsa la linea tracciata da Boccaccio e Basile, avremmo avuto una letteratura meridionale modulata sulla leggerezza dei sogni e sulle oscillazioni dell’immaginazione. Ma ha prevalso l’atteggiamento aragonese che negli esiti letterari ha provocato uno sguardo da archivista, ha ratificato l’assenza della borghesia e dunque il fallimento di qualsiasi spinta al progresso».
Eccezioni o alternative? Lupo ne individua ben poche: l’anelito alla modernità politecnica di Elio Vittorini, siciliano a Milano, e del suo allievo Raffaele Crovi; l’approccio interdisciplinare di Leonardo Sinisgalli, lucano al Nord che si sottrae alle «viscere di una fascinazione leviana»; la vocazione riformista e federativa di Adriano Olivetti, piemontese impegnato nel dopoguerra tra Pozzuoli e Matera, che echeggia in un pamphlet di Riccardo Musatti (La via del Sud, 1955, riedito nel 2020 da Donzelli con un’introduzione di Carlo Borgomeo). Fra tutte, nell’analisi dell’autore, spicca l’anomalia virtuosa di Raffaele Nigro, fin da I fuochi del Basento (1987): «A più di quarant’anni di distanza dal Cristo leviano, Nigro capovolge i termini del narrare meridionale con un romanzo di pronunciate ascendenze manzoniane, dove coniuga documentazione d’archivio e creatività... Per aver riscritto il patto tra epica e questione meridionale, I fuochi del Basento restituisce dignità letteraria a un argomento piuttosto marginale come il brigantaggio, contribuendo alla sua rivitalizzazione». E proprio con Nigro e con altri studiosi come l’antropologo Vito Teti, da tempo Lupo è impegnato in una prospettiva «appenninica» della questione meridionale (le aree interne, la dorsale dall’Emilia alla Calabria), che rivendica più attenzione all’«osso» montuoso rispetto alla «polpa» delle pianure e delle coste, di fatto ribaltando il celebre paradigma postbellico dell’economista Manlio Rossi-Doria. Un’Italia solo apparentemente «minore», quella degli Appennini, tornata «di moda» in era Covid, che, scrive Lupo, andrebbe valorizzata dotandola di servizi (logistica, istruzione, sanità, banda larga) e non retrocessa a «nuova arcadia» per le fughe dalle città dei ricchi settentrionali in cerca di borghi abbandonati. L’Appennino assunto quale cardine ideale, equidistante tra Est e Ovest, tra Europa e Mediterraneo - leggiamo - anche rispetto al «pianeta meridiano» di Franco Cassano, il sociologo che ha rilanciato la necessità di un pensiero radicale del Sud.
L’esegesi dei testi letterari da parte di Lupo è rigorosa e la sua ipotesi è suggestiva, feconda: questo libro farà discutere. A noi pare - come dire? - forse troppo «severo» verso Levi, che, verissimo, ricalca le allegorie dantesche nella esplorazione dell’inferno contadino dove fu esiliato dal fascismo, ma la cui modernità letteraria (e politica) è testimoniata per esempio da L’orologio e dalla stessa mistura fra reportage, saggio e romanzo del Cristo. Simile osservazione avanzeremmo rispetto a Scotellaro e ad altri autori meridionali che l’editore Vito Laterza negli anni ’50 fece confluire nei «Libri del Tempo»: Danilo Dolci, Tommaso Fiore, Leonardo Sciascia, Giovannino Russo. Le loro sono indagini vivide lungo il confine di stagioni e sfide nuove.
Nondimeno, La Storia senza redenzione di Giuseppe Lupo è un saggio originale e importante sulla «vera grande frontiera che deve valicare la letteratura d’impianto meridionalista: quella dei rapporti tra realtà e rappresentazione, cioè tra documento e mimesi». Oltre la descrizione o la denuncia del «mondo così com’è», narrare sognare concepire un altro Sud è possibile.