di MICHELE MIRABELLA
In occasione delle ultime vicende parlamentari, per la tipicità delle votazioni, non ho sentito menzionare i «pianisti», gli esecutori, cioè, degli «a solo» che, nelle votazioni eseguono la parte propria e quella di altri solisti assenti per essersi recati a suonare altrove.
Vota uno per molti. Musica stonata, ma il concerto va avanti lo stesso. Penosa riflessione che mi prende mentre sono alle prese col Rossini della Cenerentola di cui curo la regia nel bel Teatro di Chieti.
Com’è vero che è meglio avere rimorsi che rimpianti. Uno dei crucci acerbi che catalogo nella lista dei rimpianti è quello di non aver studiato musica. Studiato intendo, non strapazzato uno strumento. Faccenda tipica della superficialità un po’ cialtrona degli Italiani che abitano la terra più musicale del mondo, ma conoscono poco la musica e, se suonano, strimpellano, accennano, vanno a orecchio. O fanno festival e cantagiri. Euterpe Musa disertava la montagna Elicona per venire in villeggiatura in Italia dove ha lasciato un grande amore per l’arte che proteggeva, ma ottenendo scarsa dedizione, o, a fatica, solo una meravigliosa inclinazione e poca attitudine al lavoro, allo studio. Naturalmente, com’è della italica indole, a confermare una generale inettitudine ci sono state le eccezioni di geni indiscutibili, scuole di addetti ardimentosi, una cultura alta, abilità raffinata nell’improvvisazione e tradizioni eccelse.
Ma, ho sempre pensato che una vera educazione musicale fosse altro. E ancora lo penso. A smentirmi potrebbe levarsi qualcuno a ricordarmi l’ottimo e infaticabile lavoro svolto dai Conservatori e dagli Istituti d’insegnamento musicale che affollano il nostro Paese. Ma le occasioni di lavoro? Dove e come gli studenti studiosi andranno a suonare? Vorrei essere smentito, ma temo che, in molti, dovranno accontentarsi di insegnare ad altri quello che hanno imparato. Questo è già molto, ma dalla terra di Monteverdi, Vivaldi, Rossini, Donizzetti, Bellini, Verdi, Puccini e via solfeggiando tra le glorie, dal paese del bel canto ci si aspetterebbe che il culto della musica fosse titolarità dello Stato, prima di tutto, e delle istituzioni. E, invece, queste, non ritengono di occuparsene con l’appassionata generosità che tutto il mondo userebbe al posto dei disattenti italiani.
Basta guardare alla sbuffante sciatteria con la quale si interviene per la sopravvivenza delle istituzioni culturali nel nostro sbadigliante paese, alla vita grama cui si destinano teatri e istituzioni musicali.
Io stesso sono stato al tempo stesso vittima e colpevole di lesa musica non avendo mai avuto la pazienza di studiare con il doveroso accanimento, con la diligenza paziente che, sola, è indice di vero amore. Ho, poi, tentato di riparare.
Diciamo a mia discolpa che ai «miei tempi» (che stonatura, questa locuzione!) era già tanto imparare a leggere, scrivere e far di conto. A scuola la «musica e il canto corale» erano una voce sulla pagella delle Elementari, diciamo così, di comodo, utile a riequilibrare medie traballanti. Risultato: Mirabella Michele, classe V della Scuola elementare pubblica «Garibaldi» di Bari, promosso con buoni voti in tutte le materie, non aveva mai toccato non dico un pianoforte, ma neanche un tamburo che non fosse una delle pentole della cucina. E, appunto, per il pianoforte mi rimase curiosità e amore indiscusso. Consulto il Confalonieri della Storia della Musica. «È il simbolo del raccoglimento musicale romantico, un confidente delle solitudini e dei sogni che si aspetta di vedere un giorno tradotti in eterne realtà spirituali».
La persona e lo strumento sono un tutt’uno com’era stato solo per gli strumenti ad arco e per i fiati. Un contatto amoroso tra il pianista e il pianoforte. La sua nota è effimera e fatalmente non si tiene, si spegne, ma con il gioco dei pedali e la virtù del tocco diviene strumento «polifonico». Ed è strumento che crea atmosfere ineffabili altrimenti, ariosità sonore, evocazioni di suoni trascorsi, luci e ombre addirittura. Ed ecco riverberi, echi, richiami subitanei, sonorità imperiose. Ancora Confalonieri: «La sua grande estensione, dal più grave al più acuto, gli consente di esprimere contrasti capricciosi ed improvvisi, lo rende adatto ad esprimere in modo speciale a seguire le divagazioni dello spirito solingo, le rêverie dell’anima, gli slanci un po’ passivi del cuore».
Un solo artista è in grado di farsi raccontare da questa grande cetra nera ed orizzontale un miracolo di confidenze armoniose, imperiose rapsodie, intimi soliloqui: apre scrigni di tesori musicali e si accredita come eroe dell’avventura incomparabile della musica. È strumento per amichevoli stanze solitarie di poeti notturni, ma anche regale segno di comando quando è issato sul palcoscenico per inondarci di comandi al cuore per snidare quelle profonde ragioni occulte anche alla ragione. Raccoglie confidenze e fa suoi i proclami il perfetto, ineguagliabile strumento sia quando sa essere solo ed eloquente sia se colloquia, discorre, contrasta d’amore con l’orchestra.
E allora, amici, perché dare del «pianista» a chi fa il furbo, imbroglia gli elettori, trasgredisce regole, stile, correttezza, buon gusto? Quale musica suona il furbacchione che in Parlamento vota anche per i colleghi assenti, ingannando i cittadini? Come un imbroglione qualunque e non un rappresentante del popolo si presta ad eseguire la soperchieria volgare e stonata. Perché chiamarlo «pianista», per la mimica, forse? Ma non abbiamo visto nelle foto e nelle immagini televisive com’è sgraziato, inelegante, ripugnante? Trovate per questa gente altri appellativi, brutalizzateli con altri nomignoli, lasciate in pace il pianoforte. Ma, vuoi vedere che non me ne sono accorto e la musica è cambiata, finalmente hanno trovato il modo per impedire gli «a solo» degli imbroglioni? Ma, a giudicare dalle recenti vicende parlamentari, sembra sia la solita musica.
Michele Mirabella