di MASSIMILIANO SCAGLIARINI
Chi scrive, ieri, ha passato la mattinata a rispondere alle telefonate di chi chiedeva chi fosse quell’unico avvocato che ha ritirato in cancelleria le intercettazioni di Berlusconi e Tarantini. Tra i c’erano anche diversi colleghi giornalisti, evidentemente ansiosi di scoprire il nome della talpa o almeno di chi, oggi, è ritenuto tale. Un comodo capro espiatorio. Perché la risposta con cui lunedì il procuratore di Bari, Giuseppe Volpe, ha ritenuto di chiudere l’ennesima polemica sull’ennesimo presunto caso di fuga di notizie, pur tecnicamente corretta, ha spostato il mirino sull’obiettivo sbagliato. Il punto, infatti, è ben diverso.
Le trascrizioni di cui stiamo parlando sono infatti atti di un processo penale che da tempo si svolge in Tribunale, a Bari, a porte aperte. Qualunque cittadino, se lo desidera, può accomodarsi in aula. Se seguirà le udienze, potrà ascoltare – in pubblico, e con le proprie orecchie – quelle stesse intercettazioni che oggi portano qualcuno (più di qualcuno, in realtà) a stracciarsi le vesti. Non sono atti coperti da segreto, semplicemente perché fanno parte del fascicolo del dibattimento. Sono note – e non da ieri - agli imputati, ai loro difensori, all’accusa e alla polizia giudiziaria. E sì, anche ai giornalisti, cui la legge consente la pubblicazione degli atti dopo la conclusione delle indagini preliminari.
Di che cosa parliamo, allora, esattamente? Parliamo di intercettazioni che a dibattimento, nel contraddittorio tra accusa e difesa, potranno formare la prova su cui un Tribunale dovrà decidere se gli imputati sono o meno colpevoli di una serie di reati. E’ la pubblica accusa, quando deposita il materiale probatorio a un giudice, a ritenere le intercettazioni di per sé rilevanti a provare quella che fino a sentenza definitiva è pur sempre una tesi di parte. In questo caso, è stata una difesa a chiedere ai giudici – e un giudice a consentire – che da quelle intercettazioni si eliminassero le parti coperte da omissis.
INTERESSE PUBBLICO - Di chi è allora la responsabilità se un atto del dibattimento, pubblico e conoscibile, finisce sui giornali? Il giornalista ha il diritto, che qualche volta diventa dovere per eliminare in radice il sospetto di parzialità, di pubblicare tutto ciò che ritiene rilevante per l’interesse pubblico. Non c’è bisogno di scomodare qui la copiosa giurisprudenza della Cassazione sul punto. Ma è difficile che qualcuno voglia, o possa, ritenere non di pubblico interesse il processo che dovrà scrivere una verità (sia pure giudiziaria) su quanto avvenuto nelle ormai celebri «cene eleganti» di Tarantini e Berlusconi che hanno monopolizzato un pezzo della storia politica recente di questo Paese. Rubo qualche altro rigo per rispondere qui a chi mi chiedeva il nome di quell’avvocato. Ciò che il procuratore Volpe non ha detto è che in quasi tutti i procedimenti penali le carte vengono ritirate da . Il motivo è banale: la richiesta di copia degli atti comporta il pagamento di diritti molto onerosi (gli atti del processo Ilva costavano 80mila euro) che in questo modo vengono versati una volta sola e poi divisi tra i vari avvocati interessati. Proprio come gli atti ritirati quella mattina e istantaneamente distribuiti tra una dozzina di studi legali sparsi per tutta Italia. Funziona così, e tutti lo sanno. Ma il problema di questa vicenda non sono le presunte fonti dei giornalisti, peraltro tutelate dalla Costituzione.
Il lettore sappia che tra quelle telefonate ce ne sono alcune di contenuto pecoreccio che nessun giornale, né sito web, si è lontanamente sognato di pubblicare. Dimostrando con questo una dose di equilibrio ben maggiore rispetto a chi, in prima battuta, ha deciso di trascrivere quelle conversazioni facendo sì che entrassero a far parte di un procedimento giudiziario.