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La strategia anticrisi in una strategia anti-crisi

 

Giovedì 27 Ottobre 2011, 08:42

02 Febbraio 2016, 23:58

di GIUSEPPE DE TOMASO

Domande. Può un governo che, alla Camera, si regge su un solo voto di maggioranza presentare una manovra di rigore secondo il dettato dell’Europa? Può un governo, che anche ieri è andato in minoranza due volte, assumere decisioni che non è stato in grado di adottare nei tre anni precedenti? Può un leader politico come Bossi che difende gli assegni di anzianità tutelando, in tal modo, anche le opportunità del secondo lavoro per i suoi sostenitori-elettori baby-pensionati, accettare le drastiche indicazioni che arrivano da Bruxelles e Francoforte? Può una maggioranza che già si prepara alle elezioni anticipate (primavera 2012) rischiare un bagno di impopolarità varando un piano anti-crisi severo e strutturale? 

Ci sono solo due strade per risollevare i conti pubblici rimettendo, inevitabilmente, le mani nelle tasche degli italiani: allestire un governo tecnico indifferente agli umori e alle reazioni degli elettori oppure accelerare la corsa alle urne per consentire solo al futuro vincitore di pretendere lacrime e sangue senza avere sul collo la spada di Damocle della bocciatura elettorale. Silvio Berlusconi non intende cedere di un millimetro. Se lo avesse fatto, il presidente della Repubblica già avrebbe affidato a un Mario Monti o a un Giuliano Amato il compito di confezionare una manovra-choc in grado di convincere i mercati sulla sincerità dei propositi di risanamento. Berlusconi, il cui priapismo non è solo una cifra d’alcova, vuole arrivare alle politiche da presidente del Consiglio in carica. Per raggiungere questo obiettivo, deve galleggiare un altro paio di mesi. Ogni giorno che passa è un giorno guadagnato (per lui) nella realizzazione di questo disegno. Ma ogni giorno che passa può rivelarsi un giorno perduto per la reputazione del Belpaese, cui viene sollecitato in ogni momento di cominciare a ridurre sul serio il suo monumentale debito pubblico. 

Nasce da questa aspirazione berlusconiana la lettera inviata ieri all’Unione Europea, che ha tutta l’aria di un prefax con un evidente sottinteso: non siamo in grado di offrire altro, di più non possiamo fare. Infatti, tutte le misure contenute nella missiva sembrano ispirate al principio «problema rinviato, problema mezzo risolto», principio in auge negli anni dell’escalation debitoria, ma assolutamente improponibile negli anni dell’euro e dei conti quasi in comune. Il peccato originale delle soluzioni abbozzate nella lettera all’Europa (dall’innalzamento - 2026 - dell’età pensionabile ai licenziamenti più facili, dalla dismissione del patrimonio pubblico alla stretta sui contratti parasubordinati), consiste proprio nell’atte ggiamento nei confronti del Fattore Tempo, derubricato oggi alla stregua di «variabile indipendente» come si diceva del salario nei giorni più conflittuali dell’autunno caldo 1969. Ma se i mercati e il tandem Germania-Francia non vogliono concedere alla Grecia nemmeno il tempo di attendere i risultati dei suoi tagli ai dipendenti pubblici e alle pensioni, difficilmente potrebbero chiudere un occhio con l’Italia, i cui ultimi scivoloni nelle piazze finanziarie e negli spread sui titoli di Stato, non a caso, sono strettamente legati anche alla tolleranza zero dei Poteri Forti di Berlino e Francoforte verso il governo di Atene. 

I mercati, che sono più attenti di uno psicologo, negli ultimi mesi si sono convinti di una cosa: se l’Europa non ci tiene a salvare dal baratro una nazione dal Pil marginale, come la Grecia, evidentemente adopererà lo stesso criterio di intransigenza pure nei confronti di Roma, che marginale non è. Purtroppo la sostanziale stroncatura da parte tedesca del piano di risanamento della Grecia ha prodotto effetti a catena, per cui nel girone infernale di coloro che sono sospesi hanno fatto il loro ingresso Stati come l’Italia che, pur essendo afflitti dal terzo debito pubblico del pianeta, rimangono fra le nazioni più attive nel manifatturiero, oltre che nel possesso e nella moltiplicazione della ricchezza privata.

Ma non tergiversiamo. Per dare un segnale a tutti (mercati e cittadini), noi al posto di Berlusconi avremmo sparigliato il gioco passando a un altro lo scettro di Palazzo Chigi. Il Cavaliere avrebbe visto scemare su di sé una pressione mediatica che dura da quasi 20 anni. La maggioranza, vecchia o aggiornata, avrebbe ripreso a respirare. I poli avrebbero ricominciato a formarsi non sulla base del dilemma Berlusconi sì-Berlusconi no, ma sulla base di una più auspicabile coerenza programmatica. Ha fatto un passo indietro Zapatero, in Spagna, proprio per allontanare da sé la calamita che attirava accuse come ciliegie. Lo faceva in passato il nostro Giovanni Giolitti (1942-1928) che quando vedeva la malaparata chiamava i Fortis o i Luzzatti a sostituirlo alla guida dell’esecutivo. Tanto, da premier ombra riusciva ugualmente a esercitare la propria influenza in Parlamento e nel Paese. 
Essendo un imprenditore, per giunta combattente, il Cavaliere non concepisce neanche lontanamente l’idea dello stop. Eppure la vittoria in Molise, nonostante l’esiguità del test elettorale, dovrebbe indurlo a riflettere sul fatto che a volte la coalizione sa dimostrarsi assai più forte del suo leader.
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