Dalla P di Palamara alla P2 delle toghe? In pochi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso avrebbero pensato che la magistratura, al culmine della popolarità e della legittimazione, avrebbe imboccato quella china discendente che, poco meno di trent’anni dopo, l’ha condotta in un vicolo cieco.
Erano i tempi di Tangentopoli e di Mani pulite, i magistrati erano accolti come i salvatori della Patria e furono determinanti nell’avvento della cd. «Seconda Repubblica». Era la magistratura che operava sul campo – non senza critiche e riserve su alcuni metodi adottati – e che segnò la rottura degli equilibri politico-sociali dell’epoca. La rivoluzione delle toghe.
La spinta di radicale rinnovamento si è però gradualmente ridimensionata, dopo esser stata cavalcata con insperato successo da partiti e movimenti giustizialisti (con un improbabile annunciato passaggio ad una «Terza Repubblica») fino quasi a sparire, mentre giochi e lotte di potere occulti (ma non troppo) hanno gradualmente preso il posto – sui media, ma non solo – delle battaglie giudiziarie contro fenomeni corruttivi e quant’altro (ancora in atto da parte dei magistrati più sensibili ma ormai di scarsa presa sull’opinione pubblica). Ora – dopo lo scandalo Palamara della spartizione degli incarichi apicali con relativo manuale Cencelli – emergono i risvolti di una vicenda inquietante, solo in parte smorzata dall’emergenza pandemica. Una loggia massonica in cui si sarebbero mossi – tra l’altro – alcuni magistrati per condizionare nomine ed affari, con tanto di dossier e file a supporto di ipotesi ovviamente tutte da verificare. Se così fosse, però, sarebbe estremamente grave per il nostro Paese. Si parla di un gruppo non solo di magistrati, ma anche di politici, imprenditori, capi delle forze di polizia e avvocati. Potenzialmente, uno scandalo paragonabile a quello della P2 di Licio Gelli, scoperta giusto quarant’anni fa. Con tanto di «corvi» intenti a spedizioni di missive.
Quale che sia l’esito della vicenda, emerge ancora una volta un’immagine della magistratura come centro di potere, e non di espressione della «funzione» giurisdizionale – non è un caso che la Carta fondamentale (art. 102 comma 1 Cost.) usi questo termine e non il vocabolo «potere», intendendo così evitare esondazioni pericolose – che nel sistema di pesi e contrappesi dell’ordinamento ha un ruolo peculiare. «I giudici sono soggetti soltanto alle legge» (art. 101 comma 2 Cost.) e ciò rende assai delicato i loro ruolo perché non vi sono altri organi dello Stato cui rispondono.
Ecco perché è fondamentale che il loro agire non debordi, che quel potere venga «maneggiato con cura» e che godano di una legittimazione popolare. Non necessariamente plebiscitaria e acritica come quella degli anni Novanta del secolo scorso, nata dal vuoto della politica (ogni vuoto, come si sa, tende ad essere riempito).
La politicizzazione delle toghe ha origini risalenti, al congresso dell’ANM di Gardone del 1965, quando fecero il loro debutto le correnti, all’epoca espressione di orientamenti culturali diversificati destinati ad incidere sull’interpretazione della legge e poi progressivamente piegate a interessi di carriera. Scrive Edmondo Bruti Liberati che quel congresso «segnò un punto di non ritorno. Il dibattito associativo si misurava ormai con la dimensione politica dell’attività giudiziaria, i magistrati […] ridiscutevano il ruolo del giudice in una società che si stava vorticosamente trasformando» e «l’ideologia della separatezza del corpo veniva messa in crisi». Con effetti nel lungo periodo per certi versi non dissimili a quelli dei partiti politici: un iter ineluttabile da portatori di differenti ideologie a centri d’affari (fino a giungere a pratiche distorsive).
Qui però saremmo oltre, ci troveremmo di fronte all’asservimento delle attività istituzionali ad interessi personali. Ad un’associazione segreta in piena regola, come tale potenzialmente eversiva dello Stato. Se veramente è così, si è toccato il fondo. L’ascesa inarrestabile dell’«Impero giudiziario», che sembrava essere l’ultimo faro rimasto ad illuminare una società ed un sistema politico come il nostro in profonda crisi (di credibilità, ma non solo), si è trasformata in una irrefrenabile caduta, come nell’antica Roma.
Tra le riforme presenti nel Recovery Plan vi è anche – nell’ambito di quella della giustizia – quella del CSM. Riforma non facile. I numerosi nodi venuti al pettine non possono essere districati con una semplice riscrittura delle regole elettorali o dell’assetto della sezione disciplinare. È la cultura corporativa, che nessuna norma può cancellare, a dover essere sradicata. È un senso malinteso del potere, diffuso in alcuni magistrati, a mettere in crisi il sistema.
La crisi profonda potrà essere foriera di una palingenesi? C’è da augurarselo.
Terzo potere va combattuta

Mercoledì 05 Maggio 2021, 13:52