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Lega di lotta e di governo
un’acrobazia assai difficile

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Lega di lotta e di governoun’acrobazia assai difficile

Martedì 27 Aprile 2021, 11:31

È assodato. A tutti i leader politici fa comodo capitanare un partito «di lotta e di governo». È una linea rischiosa, che però ha il pregio di accontentare i diversi reparti di una formazione, e di assicurare, perlomeno sulla carta, un buon dividendo in materia sondaggistico-elettorale. Poi, come insegna la storia, va a finire che il pallino del gioco sfugga di mano e che gli eventi impediscano, anche ai più abili e agili, di tenere il piede in due scarpe.  E il cammino  si complica.
Insomma. Libri sul tavolo, non sono pochi i big, in Italia, che in 160 anni di unità nazionale, hanno vestito simultaneamente l’abito blu del governante e la camicia aperta dell’oppositore. Persino qualche gerarca del fascismo ha tentato la medesima operazione.
Stavolta, però, lo scenario è meno semplice. Primo, perché l’eccezionalità rappresentata dalla pandemia induce a rivedere i tradizionali schemi di azione e di analisi. Secondo, perché il piano di contrasto dei danni provocati dal Covid può giustificare alleanze inedite e sforzi corali poco praticabili in tempi ordinari.
Eppure, nonostante la straordinarietà del caso Italia dopo lo sbarco del virus, la cronaca quotidiana offre una vetrina infinita di esempi sulla difficoltà, per non dire sull’impossibilità, di avvicinare posizioni distanti tra loro come la Terra e Marte. Non solo all’interno di una coalizione, ma forse al’interno di uno stesso partito.La questione ha un nome e cognome: Matteo Salvini. Il condottiero della Lega, nonostante i successi elettorali che hanno premiato la sua leadership dopo la declinante stagione di Umberto Bossi e Roberto Maroni, deve ancora decidere cosa fare da grande, in Italia e in Europa. Anche perché ci vuole poco, nell’era della volatilità del consenso, a svuotare immensi serbatoi di voti.
La tesi prevalente tra addetti ai lavori e commentatori politici è che Salvini soffra la concorrenza, sul medesimo bacino elettorale, di Giorgia Meloni, cui le indagini demoscopiche attribuiscono un costante progresso negli indici di gradimento. Il che, secondo questa scuola di pensiero, avrebbe indotto Salvini a indurire il suo atteggiamento nei confronti della maggioranza di governo e del presidente del Consiglio. Può essere.
E, però, ciò non basta a spiegare toni e decisioni che, in altre circostanze, avrebbero provocato le immediate dimissioni dell’esecutivo, con la successiva automatica ratifica della crisi di governo.
Forse sbaglieremo, ma abbiamo l’impressione, in verità non da oggi, che la Lega si sia fatta in due. E che prima o poi la linea del segretario e la linea del vicesegretario (Giancarlo Giorgetti) si ritroveranno al punto di svolta. Fino a quando, infatti, sarà possibile la quadratura del cerchio tra il radicale Salvini e il moderato Giorgetti, ossia tra l’amico dell’ungherese Orbàn e il sostenitore dell’avvicinamento leghista al Ppe della Merkel? Fino a quando sarà possibile mettere insieme sovranismo ed europeismo, senza provocare crisi di rigetto nei due fronti opposti?
Se, poi, a questo si aggiungono i caratteri e le caratteristiche delle persone, il discorso potrebbe allargarsi  sino a sfociare, forse, in esiti imprevedibili.
Si sa. In politica i leader in carica temono più i rivali interni che gli avversari esterni. E probabilmente anche Salvini teme più Giorgetti che Enrico Letta, anche se Giorgetti tutto sembra fuorché un vassallo smanioso di disarcionare il suo comandante. E, comunque, forse a Salvini non deve fare molto piacere il fatto di leggere che Giorgetti sia apprezzato da Mario Draghi e Sergio Mattarella o che sia tra i pochi ministri, forse l’unico, a dare del tu all’ex presidente della Bce.
Due anni fa, all’indomani del trionfo elettorale leghista alle europee, Giorgetti auspicò il ritorno anticipato alle urne per rinnovare  Camera e Senato. Ma Salvini non mise in discussione il governo Conte, di era vicepremier insieme con Luigi Di Maio. Un paio di mesi più tardi, invece, con Giorgetti rassegnato alla prosecuzione della legislatura, Salvini uccellò Conte con l’obiettivo di affrettare l’appuntamento con gli elettori. La manovra del Capitano fallì e fu causa della successiva erosione di consensi per un partito che alle europee aveva fatto il pienone di voti.
Insomma, non è solo sull’atteggiamento verso Draghi che il numero uno e il numero due del Carroccio manifestano pensieri diversi, a volte opposti. La dissonanza viene da lontano e coinvolge pure, anzi soprattutto, la geografia del leghismo. L’area Zaia (con Giorgetti) è, in gran parte, espressione di ceti produttivi settentrionali tutt’altro che ostili verso l’Europa (la stessa Lega delle origini giustificò la propria nascita con l’argomento che il Nord non poteva perdere il treno dell’Europa integrata). Viceversa, l’area Salvini è ancora condizionata dalle sortite anti-europeistiche dei Borghi e dei Bagnai.
Ora. Fino a quando sarà possibile prolungare il compromesso tra due linee decisamente distanti tra loro? Per certi versi, il Covid ha oscurato queste distinzioni di fondo, ma il post-Covid (leggi il Recovery Plan italiano) potrebbe accentuarle nuovamente, rendendo complicata la posizione di Giorgetti, schiacciato tra il suo capo di governo e il suo capo di partito.
Non sappiamo quanto durerà l’acrobazia di Salvini, tra Lega di lotta e Lega di governo. Sappiamo solo che di solito queste anomalìe non durano a lungo e che, a volta, basta un nulla, persino un litigio per futili motivi per scatenare il  putiferio. Anche al di là delle  intenzioni iniziali.

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