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Leggi chiare (sugli euroaiuti) per depotenziare la burocrazia

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Leggi chiare (sugli euroaiuti) per depotenziare la burocrazia

Domenica 04 Ottobre 2020, 15:42

Che il Recovery Fund (209 miliardi di euro) costituisca un’occasione irripetibile per l’Italia e il Mezzogiorno, è un fatto assodato, riconosciuto e atteso da tutti. Anche a Bari, inaugurando la 84ma edizione della Fiera del Levante, il presidente del Consiglio ha ribadito che sull’utilizzo e sui risultati degli euroaiuti si gioca il futuro dell’Italia, oltre che del governo. Ma non tutti scommettono a cuor leggero sul lieto fine del più massiccio fiume di quattrini mai predisposto per il Belpaese. Per una ragione visibile come la luna: il Fattore Burocrazia.

L’Italia non dispone delle grandi scuole di amministrazione fondate in Francia prima da Napoleone Bonaparte (1769-1821) e più tardi da Charles De Gaulle (1890-1970). La burocrazia italiana è quella che è: straripante e soprattutto poco orientata all’obiettivo del risultato, semmai super-allenata alla routine della procedura. E poi come potrebbe la Burocrazia Spa tifare per lo snellimento degli atti amministrativi se essa stessa è la più grande azienda del Paese, visto che impiega un italiano che lavora su cinque? Andrebbe contro i propri interessi. Il che non costituisce una caratteristica delle vicende umane.
Servirebbe, pertanto, una super-riforma, innanzitutto culturale, in grado di anteporre il criterio del risultato al principio della procedura. Ma, come ripeterebbe il già menzionato generale De Gaulle, sarebbe un programma vasto e ambizioso.
Non rimane, perciò, che incrociare le dita, sperare nella bontà dei progetti presentati dai ministeri, contare sul cambio di passo da parte dell’alta burocrazia nazionale, confidare sulla collaborazione tra i ministeri e tra le regioni. Sarebbe già una conquista, o un elemento di speranza, se si individuassero pochi chiari traguardi e si concentrassero tutti gli sforzi per raggiungerli, in modo tale che anche l’opinione pubblica possa valutare e giudicare, passo dopo passo, l’avanzamento delle opere.

Ma anche la selezione degli obiettivi non è mai una passeggiata, come dimostrano tutte le leggi di spesa approvate, negli ultimi decenni, dal Parlamento: l’assalto alle finanze pubbliche per gli interessi spiccioli e le prebende localistico-clientelari ha fatto sempre impallidire, per determinazione e virulenza, l’assalto ai forni raccontato da Alessandro Manzoni (1785-1873).
E comunque. La questione burocratica, che poi sarebbe meglio definire politico-burocratica, non è scoppiata ieri, e neppure l’altro ieri. Già nel 1865, all’indomani dell’Unità d’Italia (1861), il politico intellettuale irpino Francesco De Sanctis (1817-1883) lamentava «le discussioni interminabili, le interpellanze infinite, gli ostacoli alle riforme opposti dagli interessi coalizzati, le abitudini inveterate, la resistenza passiva, la rilassatezza delle amministrazioni». E ancora: «Le idee ci sono, le riforme si propongono, i progetti si fanno facilmente, ma quanto si tratta di eseguirli, quanti ostacoli! Quante passioni».

E De Sanctis scriveva e parlava quando l’azienda burocratica nazionale non aveva moltiplicato personale e fatturato, e, soprattutto, quando l’azienda burocratica era ancora regolata dal precetto della terzietà tra governanti e governati. Via via che lo spoil system, ossia l’occupazione, la lottizzazione partitocratica delle leve burocratiche, ha preso il sopravvento, la dittatura dei «signori del tempo perso» (Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri) si è fatta sempre più pervasiva e onnipotente.
Il fascismo peggiorerà lo stato dell’arte, perché, oltre ad aggiungere i bolli, i placet dei ras locali ai timbri delle autorità tradizionali, imporrà e diffonderà l’idea dell’identificazione, della compenetrazione totale tra stato e partito. Nell’immediato dopoguerra, nella fase costituente, il giurista Massimo Severo Giannini (1915-2000), forse il massimo conoscitore della materia, suggerì che alla discontinuità costituzionale tra fascismo e democrazia si affiancasse anche la discontinuità amministrativa tra i due sistemi. Ma prevarranno considerazioni politiche, improntate a calcoli elettorali e a cautele corporative. Morale: nessun cambiamento, nemmeno di tipo gattopardesco.
Il socialista Pietro Nenni (1891-1980) chiama in causa la Democrazia cristiana, quando nel 1963 entra nella mitica stanza dei bottoni: «La Dc ha modellato a propria immagine gli alti gradi della pubblica amministrazione. Ha creato un’infinità di enti». Ma lo stesso Nenni si chiede, con onestà, se la Dc li controlli o ne sia controllata.

Chi vuole sapere chi comanda davvero in Italia farebbe bene a leggere l’ottimo libro Io sono il potere di Giuseppe Salvaggiulo, già recensito su queste colonne. Una radiografia-requisitoria di un anonimo gabinettista che conosce gli apparati pubblici come le proprie tasche. La tirannia burocratica viene descritta in tutte le sue sfumature ed evoluzioni, nel cui sfondo si avverte un concentrato metacromatico di invisibilità, immutabilità, immunità e impunità.
L’impressione immediata è che il motto di gabinettisti e alti burocrati sia, in estrema sintesi, quello di pensare chiaro, ma di parlare oscuro, anzi, nel loro caso, di pensare semplice e scrivere complicato, visto che il drafting legislativo, la tecnica di scrittura dei provvedimenti, costituisce il primo pilastro occulto del vero potere, quello che non si vede. Del resto, anche le norme richiamano indirettamente la tesi («Non ci sono i fatti, ma solo le interpretazioni») di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Anche la fabbrica legislativa sforna carte su carte in vista delle interpretazioni, il cui giro di affari e di influenze viaggia alla grande grazie a un linguaggio più labirintico e astruso di un dibattito bizantino.

Ecco. Il primo atto per detronizzare o, perlomeno, depotenziare il vero sovrano (Burocrazia) della Penisola, passa dalla lingua, dalla comprensione, dalla chiarezza dei termini e dei concetti che affollano le norme. La Costituzione italiana non gode dell’unanimità dei consensi, ma nessuno può rinfacciarle la benché minima oscurità terminologica. Anzi. Tutti la capiscono. Forse anche per questo in tanti le sono affezionati, pur non rispettandola in toto.
Non si capisce perché analoga facilità di accesso e di assimilazione linguistica non debba estendersi a tutte le leggi ordinarie. Basterebbe che il Parlamento esigesse e favorisse, in sede di approvazione dei provvedimenti, un lessico limpido come quello della Carta Costituzionale: lo strapotere burocratico sarebbe indotto a più miti pretese.
Conclusione. Anche la sorte del Recovery Plan è legata, innanzitutto, al primo, si spera felice, approccio con le parole dei testi legislativi. Tutto il resto è noia. E danno.

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