Tutto precipitò un anno fa, dai lidi di Milano Marittima. L’allora vicepremier leghista, Matteo Salvini, in vacanza al «Papeete» dell’amico Massimo Casanova, staccò la spina al governo gialloverde e aprì la più inaspettata crisi di governo degli ultimi lustri.
Da allora è cambiato tutto, o forse nulla, secondo il più gettonato spartito italico. Di certo, però, è successo molto, moltissimo.
In quell’estate del 2019 il mondo guardava all’Italia come primo Paese europeo ad ospitare un governo compiutamente sovranista e populista. Una sorta di laboratorio avanguardistico che fondeva l’identitarismo anti-europeo della Lega alle politiche stataliste e anticasta del Movimento 5 Stelle. Con, per di più, un contratto a suggellare il tutto e un premier, Giuseppe Conte da Volturara Appula, tirato fuori dal più stretto anonimato e consegnato alle cure dei suoi vice, Salvini e Di Maio, ben determinati a tenerlo in ostaggio. La crisi del «Papeete», lungi dal riportare l’Italia vacanziera alle urne, come prometteva il suo promotore, aprì le porte al più vorticoso dei capovolgimenti, rovesciando il governo sovranista nel suo contrario progressista. E per di più ad opera del promotore più insospettabile, quel Matteo Renzi che, di lì a poco, avrebbe abbandonato il Partito democratico. Quindi avanti tutta: nuove parole d’ordine, nuove alchimie politiche e un premier, sempre lo stesso, questa volta seduto sullo scranno più alto da riconosciuto protagonista.
Questa sorta di coast to coast agostano, che ha visto di mezzo il flagello della pandemia, permetterebbe di esercitarsi facilmente sui sommovimenti delle politica italiana: sui cambi di passo e di rotta, sulla natura non intimamente chiarita di alcuni movimenti (come i 5 Stelle), sulle strategie individuali che intaccano il quadro generale. Ma sotto il mare in tempesta e tutti i suoi rivolgimenti c’è un fondale immobile, una sorta di vaso di Pandora, dove riposano tutti i guai del Paese: l’elefantiaca inefficienza della macchina burocratica, la lentezza della giustizia, i mancati investimenti, la debolezza infrastrutturale del Mezzogiorno, l’assottigliarsi del welfare, la tassazione eccessiva, la difficoltà quotidiana di chi intraprende, costretto com’è a combattere con mulini a vento di ogni sorta. È la calma mortifera sotto la bufera, la quiete sotto la tempesta. E la pandemia non ha fatto altro che amplificare impietosamente i mali italici, sommandone di nuovi ed evidenziando urgenze che non possono essere più rimandate. Al marziano Kunt, che Ennio Flaiano fece atterrare a Villa Borghese in un gustosissimo racconto satirico del 1954, si potrebbe spiegare il perché e il per come di tanti trasformismi e avvicendamenti repentini. Meno semplice sarebbe illustrargli il perché l’Italia resti comunque preda dei suoi demoni. Converrebbe, a questo punto, dargli appuntamento al «Papeete» fra un anno per un mojito. Perché oltre ad essere probabilmente accaduto di tutto in superficie, dovrà essere anche cambiato qualcosa nei gangli vitali del Paese. Da un’estate all’altra, c’è una sola certezza: l’Italia post-pandemia non può aspettare. Questa volta la situazione è grave ed è anche seria.