È ora di smontare il mito di Italia-Germania. Non alludiamo al fascino agonistico ed emotivo della «partita del secolo», le gesta atletiche sono fuori discussione. Sotto la lente, semmai, è il suo farsi romanzo di una generazione. E che generazione: quella del ’68. Gli italiani hanno sempre cercato di svicolare dal romanzo e dal discorso sul romanzo: prima il melodramma, poi Italia-Germania.
Mai le barricate dei Miserabili, mai l’impudicizia di Emma Bovary (se non nella versione pecoreccia della commedia all’italiana), mai la tragica introspezione degli scrittori russi con i loro personaggi in cerca di redenzione.
«La partita del secolo. Italia-Germania: 4 a 3. Storia di una generazione che andò all'attacco e vinse» è il titolo dell’ultimo libro di Nando dalla Chiesa. Gli italiani vinsero sì il match allo stadio Atzeca di Città del Messico, ma persero il campionato del mondo col Brasile. Se poi dalla Chiesa allude alla generazione del ’68, beh, la sconfitta appare ancor più evidente.
Quindi, se proprio una partita deve, non assurgere a romanzo, ma ispirare un romanzo che racconti una generazione e i suoi narcisismi rivoluzionari, quella è Italia-Brasile 1-4, la finale del mondiale 1970. Fu il brusco risveglio alla realtà piccolo borghese del vorrei ma non posso, il tornare a fare I conti con gli arcana imperii di politica (all’epoca già segnata dallo stragismo) e grandi gruppi industriali, con il boom falso mito del progresso e il correlato slogan «la fantasia al potere».
Con Lorenzo D’Alò provammo, qualche anno fa, a raccontare Italia-Brasile, la grande illusione e la sconfitta nel libro «Ilva football club». Ma gli italiani sono allergici a narrare le proprie sconfitte o se lo fanno le mitizzano finendo così per sterilizzarle, quando non imprecano contro la cattiva sorte.
La retorica di Italia-Germania è arrivata fino a noi grazie a una sorta di passaggio del testimone generazionale: nella falange di scrittori giovani e giovanissimi si sente l’influenza della «meglio gioventù» che così divora ancora il futuro di figli e nipoti condizionandone la narrativa: i romanzi oggi si sprecano nel nostro Paese, tutto o quasi è romanzo, pur continuando a mancare agli italiani l’istinto romanzesco tranne lodevoli eccezioni. Così si rimane al melodramma o al fervore di Italia-Germania: una spirale che continua ad avvitarsi intorno a quella retorica di immagini incapaci di ripulire la memoria dalle suggestioni, dai falsi miti del progresso (appunto) e di rompere col passato azzardando una ricostruzione critica, cominciando dal clamoroso errore che portò in gol Schnellinger e aprì le porte ai sublimi ed evitabili supplementari.
Privi del romanzo come racconto popolare e di un popolo, gli italiani, se non divagano attualizzando in modo grottesco la «staffetta» Mazzola-Rivera, continuano a servirsene per rivelare verità scomode: il solito confessionale dove, eternamente, il vero si trasforma in verosimile sbarrando la strada alla realtà e a una maturazione politica e sociale.
Insomma, se qualcuno avesse scritto il nostro Guerra e pace (e sì che ne abbiamo avute di guerre e di paci) nessuno avrebbe schizofrenicamente preso a pomodori i Rivera, i Mazzola tornati dal Messico nel 1970 dopo «la partita del secolo». Gli si sarebbe concesso almeno l’onore delle armi come a dei don Chisciotte, magari riflettendo sull’amara illusione di un popolo: conquistare con gli elmi di cartone e l’elisir di eterna gioventù sessantottino, il bello, il vero, il giusto. Ma si sa, un don Chisciotte, se non ce l’hai non puoi inventartelo. E persino Sancho Panza era più coraggioso di don Abbondio, unico «eroe» del romanzo italiano toccatoci in sorte, malgrado dalle sue parti sia nato Gigi Riva.