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Scuole e atenei la serrata finisca

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Scuole e atenei la serrata finisca

Lo svuotamento delle aule era ed è un segnale drammatico in una società che tenta di colmare le disuguaglianze, di dare a tutti le uguali opportunità che una democrazia ha il dovere di cercare e trovare

Domenica 14 Giugno 2020, 17:06

La chiusura ufficiale degli anni scolastici, malinconicamente e goffamente perpetrata dalla burocrazia ha lasciato una traccia triste nel sentire collettivo che contempla il pasticcio in cui sta naufragando la scuola italiana sulla quale si è scaraventata l’epidemia cui altro non si poteva opporre, data la pochezza delle idee e la miseria strutturale, che lo svuotamento delle aule. Una fiumana di ragazze e ragazzi, spaesati, ha fatto ricorso ad una congerie, non sempre ordinata, di surrogati, alternative ingegnose, didattiche varie, ma tutte “via rete informatica” o con la “videotelefonia”.

Adesso la serrata delle scuole e delle università ha proclamato un allarme, finalmente altissimo. “Prima” della serrata igienico-sanitaria esisteva un fenomeno molto preoccupante: l’abbandono scolastico.
Si tratta dell’abbandono nel senso tecnico della parola, di quella scelta dei ragazzi di disertare la frequenza scolastica che svuota le aule e segnala nei giudizi dei professori la necessità di ricorrere ad una sigla, “n.c.”, “non classificato” non bastando più i voti per sanzionare pigrizie mentali, scioperataggini, trascuratezze dello studio. La sigla si comminava come una sentenza a quei soggetti che neanche si sforzavano di affrontare uno straccio di interrogazione o di compito in classe. Renitenti alle prove, si spingevano fino alla diserzione della frequenza in cui largheggiavano impedendo, così, la minima fisiologia del funzionamento della scuola. Perché la scuola è una comunità, non un assembramento.

Tra gli sconfitti, tanti gli innocenti. Gli sfrontati perdigiorno erano una netta minoranza: scavezzacolli che potevi rintracciare di buon mattino nelle sale dei biliardi o bighellonanti nei giardini pubblici. Numerosi, invece, quelli che, sfiancati dalla fatica di conciliare studio e lavoro si arrendevano amaramente e dicevano addio ai libri sin da giovanissimi. E c’erano i disorientati, gli sfiduciati, i rassegnati che subivano in classe e sui banchi il trasferimento della disuguaglianza che pativano nella società.

E arrivava il “n.c.”: una sentenza di resa della scuola e della società, più che del malcapitato. Per i perdigiorno, meglio sarebbe stato usare il “non classificabile”: formula punitiva di un comportamento troppo lontano dalla disciplina degli studi.

Lo svuotamento delle aule era ed è, nel caso della scelta disperata della resa, un segnale drammatico in una società che tenta di colmare le disuguaglianze, di dare a tutti le uguali opportunità che una democrazia ha il dovere di cercare e trovare. Fino a l’altro ieri la diserzione scolastica era un segnale minaccioso, la cancellazione del futuro che si segnala nel sempre più ristretto orizzonte delle nuove generazioni: fino a cinque anni or sono, i minori che, in Italia, rinunciavano all’istruzione prematuramente erano più del 19 per cento del totale. Quasi uno studente su cinque lasciava gli studi prima dei diciotto anni.

Stante la afflittiva mancanza di opportunità di lavoro, rilevato il dato dell’allarmante disoccupazione giovanile, diventava obbligatorio domandarsi quale fosse la strada su cui si incamminavano quei giovani che avevano respinto la scuola o che la scuola aveva respinto. Bisogna dare atto alla scuola italiana di aver lavorato duro per aggiornare i suoi criteri pedagogici che sono mutati con l’impulso dato al rinnovamento culturale e ai metodi aggiornati e riconosciamo la sua capacità di accoglienza aumentata insieme alla vigilanza e sensibilità culturali e sociali delle quali sarebbe ingiusto non prendere atto. Ma i problemi strutturali, a cominciare da quello dell’edilizia scolastica per arrivare al trattamento salariale dei docenti restano drammatici.

Ma è successo qualcosa che ha sconvolto l’analisi e le domande che sostengono queste constatazioni: probabilmente la scuola, come agenzia culturale, non è stata più percepita al centro della prospettiva umana e sociale. Per molti giovani sbandati nel coacervo delle sollecitazioni del comparto comunicativo e delle prospettive di vita comunitaria, le più gradite porte dei saperi sono state quelle che si spalancano loro nel marasma di una malintesa universalità e globalità del social-network.
Si afferma il malinteso assurdo che pone la scuola e l’università sul versante di un passato polveroso e statico in contrasto e non comunicante con dati, elementi, culture e valori di una pretesa modernità, contraddittoria, fittizia, la cui esteriorità e superficialità sono viste in competizione col giacimento dei saperi condivisi che è la vera cultura. A determinare la scarsa attrattiva che la scuola esercita su troppi giovani, c’è, si, l’accidiosa contemplazione di un fallimento della società delle garanzie e delle certezze che è sotto gli occhi desolati di tutti, ma c’è, anche, una gigantesca illusione allestita dal paese dei balocchi edificato da certi media impazziti e molto ricchi, dai loro contenuti ipnotici e illusori, da una sottocultura delle facili chimere e dei miraggi sulle macerie dei valori ineludibili di una democrazia. Atterrisce pensare cosa segua all’abbandono della scuola e quali siano i percorsi di asocialità che si spalancano nel disordine davanti ai renitenti: quello sbandamento che, prima o poi, porta all’emarginazione dal contesto della civiltà delle regole e delle leggi.

Oggi cantiamo, speriamo, la catastrofe, la strofa finale della tragedia e il coro globale, forse, può apprendere e fare apprendere un valore alto: la scuola è indispensabile e deve essere tenuta in conto prima di tutto, come la salute pubblica con il cui valore metaforico si identifica. Ne parleranno negli “Stati generali”? I giovani vogliono che le scuole e gli atenei riaprano. Subito! Prima di ogni altra istituzione o organismo sociale. La novità grande che i giovani hanno compreso e tentano di spiegare è questa.

Per diventare “nettadini”, cittadini del network, della nuova città dell’uomo, si deve andare a scuola, e come! E più a lungo e più assiduamente di prima. Tutto il resto viene dopo.

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