Sarà perché le riforme, in Italia, degenerano quasi sempre in controriforme. Sarà perché all’Italia non piacciono le riforme che piacciono all’Europa. Sarà perché le riforme, da noi, scatenano più diverbi di un gol annullato, sta di fatto che la parola riforma non attraversa un buon periodo di popolarità, anche perché viene associata all’idea di sacrificio individuale e di rigore finanziario collettivo.
Eppure, l’Italia ha bisogno di riforme non già perché le sollecita (non da sola) la Germania, ma perché le riforme sono come le medicine: se un paziente vuole guarire, non può gettare i farmaci nel cestino, come pezzi di carta imbrattata. Invece, tutte le volte che gli organismi europei ricordano a Roma la necessità di correggere le storture del sistema Italia, scatta all’unisono la reazione dei (presunti) custodi della sovranità nazionale. Giù le mani dal nostro Paese, non attentate alla nostra autonomia, basta con i ricatti sulle cose da fare e via protestando. Come se il memento a non sprecare quattrini e a garantire un’oculata amministrazione delle risorse pubbliche, fosse un consiglio truffaldino o un suggerimento ambiguo e osceno. Se avesse agito così, con oculatezza, non soltanto nei primi decenni del secondo dopoguerra, ma pure in seguito, adesso l’Italia affronterebbe con la massima serenità i terribili guai economici e sociali provocati dal morbo giunto dalla Cina. Ma, si sa, così va il mondo. A prescindere dalle responsabilità cinesi, la colpa è sempre degli altri, anche quando gli altri erano distratti o si trovavano altrove.
Allora. Perché infuriarsi o, al limite, borbottare se dall’Europa qualcuno ci ricorda che l’Italia non ha ancora terminato i compiti a casa, e che farebbe bene a mettersi finalmente sulla buona strada delle riforme? Mica vuole il male del Belpaese chi ci invita a non scialare, specie ora che la proposta di mutualizzare il debito dei soci europei sta facendo progressi. Che vogliamo fare? Come vogliamo rispondere noi? Vogliamo vieppiù spaventare i cosiddetti «Paesi frugali» del Vecchio Continente, sempre sospettosi nei confronti degli spendaccioni governi italici?
Al posto del premier Giuseppe Conte o del ministro Roberto Gualtieri faremmo il seguente discorso ai partner europei: «Non volete dare soldi (senza condizioni) all’Italia perché la considerata più spensierata di una cicala? Non volete darle soldi perché temete che l’Italia non saprebbe cosa farsene di una nave stracolma di euro? Ok, ma mai come in questa circostanza potrebbe essere l’Italia a rilanciare la sfida. Come? Mettendo in cima all’agenda euro-italica la questione del Sud. Infrastrutturazione e defiscalizzazione potrebbero e dovrebbero essere i relativi punti nodali. La questione meridionale è la più europea e spinosa delle questioni. Finora è stata affrontata, in Italia, con la logica parassitaria dell’acquisizione del consenso. Ora dovrebbe essere affrontata con il criterio dell’ammodernamento degli apparati pubblici e privati. Del resto, riformare l’Italia significa innanzitutto attenuare il divario Nord-Sud. Tutto il resto è conseguenziale, di è sicuro assai meno importante dell’obiettivo storico di unificare economicamente la Penisola.
Più infrastrutture e meno tasse (per attirare gli investimenti): dovrebbe essere questa doppia manovra la soluzione più efficace per avvicinare il Sud all’Europa e all’Italia che corrono. Si dice: ma la spesa pubblica nel Sud è quella che è, mediocre; ma le classi dirigenti meridionali non brillano per intraprendenza. Ok. Tutto vero. Ma ciò non è un buon motivo per rassegnarsi fatalisticamente a un andazzo ultrasecolare, né è un buon motivo per non dare un senso, un indirizzo, uno scopo agli aiuti finanziari. che dal prossimo 2021, si spera, piomberanno piuttosto copiosi tra le Alpi e il Mediterraneo. Il professor Roberto Perotti, economista, giudica semplicemente impossibile spendere bene in poco tempo una tale ingente quantità di denaro. Non ha tutti i torti.
L’unico rimedio per aggirare il rischio, la tentazione della spesa facile, della spesa tanto per spendere, solitamente a beneficio dell’incrocio tra clientela e feudi politici, consiste negli autonomismi fiscali, nella detassazione automatica degli investimenti, nel credito d’imposta e negli strumenti affini. Sì, qualcuno, però, può obiettare che l’Europa non agevola gli incentivi fiscali per macro-aree. È vero, Non li agevola. Ma neppure li proibisce. Epperò, se un Paese come l’Italia concentrasse il grosso degli aiuti comunitari sul binomio più infrastrutture-meno tasse nei territori meno sviluppati, chi avrebbe l’improntitudine di salire in cattedra per bloccare simili interventi? Ci vorrebbe un bel coraggio.
L’Italia ha tutto, e tutta, da guadagnare dal rilancio dello spirito unitario europeo. Ha da guadagnare il Nord che confina con il top dell’Europa evoluta. Ha da guadagnare il Sud, i cui ritardi non possono certo essere colmati da politiche autarchiche, localistiche e protezionistiche. Nord e Sud, peraltro, farebbero bene a non beccarsi come i polli di Renzo, il che purtroppo spesso succede, e non da oggi.
L’Europa è un misto di arroganza (Nord) e petulanza (Sud). Ma anche in Italia tende a riprodursi, tra Nord e Sud, lo schema geopolitico arroganza/petulanza. Schema che di questo passo rischia di allungare la secessione strisciante già in atto, come dimostra la rissa sulle misure di uscita dall’emergenza coronavirus e persino, in forma indiretta, e il ping-pong sulla data delle future elezioni regionali.
Ormai le Regioni italiane parlano con disinvoltura di passaporti, di divieti alla circolazione, di blocchi da innalzare per contrastare la libertà di movimento. Altro che omaggio alla Costituzione: la Carta fondamentale dello Stato è sottoposta a strappi continui. Altro che Mes: i pericoli scissionistici, della nazione Italia e dell’Unione Europea, dipendono da altri fronti, ossia dall’ossessione localistico-campanilistica che rischia di abbattere e frantumare l’edificio unitario del Paese.
Ecco perché l’Europa fa bene a insistere sul tema delle riforme da realizzare a Roma. Ne va non solo della tenuta del Vecchio Continente, ma della stessa sopravvivenza dello stato unitario peninsulare costruito col sangue dai grandi del Risorgimento.