Un manager dalla vena caustica sosteneva che non vale la pena di perdere la testa per stabilire quale settore economico e/o industriale sia strategico e quale no. Per il potere politico, diceva, se un settore è caro significa che è strategico, se costa poco non lo è. Stop. Parole azzeccate, seppur corrosive e paradossali. Infatti l’Alitalia fa spendere da decenni una barca di quattrini allo stato, roba che manco una finanziaria alla Giuliano Amato. Non a caso, la compagnia si è assicurata la qualifica di asset strategico a prova di sbilancio. Cosa ci sia di strategico in un’attività, il trasporto aereo civile, che potrebbe essere garantita da investitori privati, non si sa. Cosa ci sia di strategico in una società che continua a chiedere molti denari ai contribuenti, senza peraltro «risarcirli» con tariffe sostenibili, riesce difficile comprenderlo. A meno che, appunto, non si segua il ragionamento di cui sopra. Costa molto un intervento? Vuol dire che è strategico. Costa poco? Chi se ne frega.
Abbiamo citato Alitalia, ma potremmo aggiungere una lunga lista di nomi. Tutti strategici. Sì, strategici soprattutto al consenso elettorale, al calcolo politico, alle sistemazioni clientelari.
Ma ci deve pur essere un criterio per stabilire la strategicità di un’impresa, di un’attività, di un settore, a meno che non si ritenga che ogni valutazione debba essere affidata al Principe del momento. Ok. ci rendiamo conto che non è facile. L’Ilva, ad esempio. Strategica o no per uno Stato? Dipende. In tempo di pace, di sicuro un’acciaieria non può ambire al titolo di «strategica». In tempo di guerra, il discorso cambia. Potrebbe uno stato consentire che nel suo Paese venga prodotto acciaio in una fabbrica di proprietà di un gruppo straniero? E se questo gruppo straniero fosse di una nazionalità o di una nazione in aperta ostilità con noi? Certo, si tratterebbe di un caso limite, difficilmente pianificabile in tempi normali o ordinari. E comunque, un criterio andrebbe pur sempre adottato per stabilire cosa è primario, strategico o cosa è secondario, supplementare, per uno stato.
Soluzione? Facciamolo decidere alla Costituzione, alla legge fondamentale dello stato. Se un’istituzione, un’attività, un settore sono in Costituzione, nessuno obietterà sulla loro conseguente strategicità. Se, viceversa, la Costituzione non si occupa di alcune materie, significa che queste non vanno giudicate di fondamentale, imprenscindibile importanza.
La giustizia, ad esempio, è in Costituzione. Infatti, a nessuno salterebbe in mente di considerarla un accessorio della macchina statale. Sono in Costituzione i dispositivi - ergo sono strategici - di garanzia e di razionalità, ossia quegli organismi contromaggioritari che garantiscono la libertà di tutti di fronte ad eventuali tentativi di prevaricazione da parte dei vincitori delle partite elettorali.
È in Costituzione l’informazione, la stampa. E lo è pure in una posizione di riguardo (l’articolo 21 della Carta). Segno che i Costituenti attribuivano una funzione strategica al giornalismo libero, che caratterizza una democrazia molto di più della classica ripartizione dei poteri tramandataci dal barone di Montesquieu (1689-1755). Non è sufficiente, per rilasciare la patente di democraticità a un sistema politico, l’opportunità di verificare la simultanea presenza, al suo interno, dei tre classici poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario). Anche nei regimi autoritari o totalitari coesistono i tre poteri codificati da un gigante dell’illuminismo, ma non per questo i regimi suddetti possono definirsi o ritenersi modelli o esempi di libertà e tolleranza. Anzi.
Morale. Se c’è un settore, in una liberaldemocrazia vera, che più strategico non si può, il suo nome è informazione. Del resto, uno tra i primi a intuirlo e a riconoscerlo pubblicamente fu un capo politico, Thomas Jefferson (1743-1826), terzo presidente degli Stati Uniti: «Se dovessi trovarmi nella condizione di dover scegliere cosa salvare, tra il governo e la stampa, salverei la stampa».
Ecco perché c’è molto da preoccuparsi quando l’informazione comincia ad ammalarsi, e nessuno se ne accorge, o se ne vuole accorgere, o addirittura si augura il decesso. C’è molto da agitarsi perché se, di crisi aziendale in crisi aziendale, viene meno l’informazione, che non va confusa con la canea internettiana, ciao ciao democrazia.
Che può fare uno stato per evitare il rischio di trovarsi un giorno senza giornali? Semplice. Costruire una cornice giuridica che permetta alla stampa (strategica perché, insistiamo, di fatto viene ritenuta tale dalla Costituzione) di svolgere il suo ruolo senza particolari problemi e senza l’assillo di dover sempre elemosinare qualcosa.
Spesso le riforme migliori, quelle più efficaci, sono quelle a costo zero, sono le modifiche, le deroghe procedurali, tipo l’amministrazione straordinaria per i giornali in crisi o la possibilità di utilizzare un scudo statale di garanzia nei prestiti alle aziende editoriali in ristrutturazione.
Ma siccome, ecco la beffa più singolare, queste riforme sono a costo zero, per ciò stesso perdono in partenza, insieme con le relative categorie di riferimento (nel nostro caso la stampa) l’appellativo di «strategiche». Il che ha dell’incredibile o del beffardo. Chi si trova in Costituzione non è strategico. Chi non si trova lo è. Il bello, cioè il brutto, di tutta questa storia che a distrarsi, o fare finta di nulla, in un clima di indifferenza ambientale, sono proprio coloro che osannano la Costituzione da mane a sera, senza, purtroppo, averne mai letto o imparato un rigo.