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Quelle lezioni che la politica non vuole ascoltare

 
Franceso Giorgino

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Franceso Giorgino

Governo

I partiti comprendano la differenza che esiste tra vivere e sopravvivere. Il futuro è un compito

Lunedì 27 Aprile 2020, 14:47

14:48

La parola “politica”, non foss’altro che per la sua radice etimologica, è vincolata nel proprio significato denotativo e connotativo al concetto di “polis”, ovvero alla nozione di sfera pubblica, di comunità, di processo costruito intorno all’interazione tra Stato e cittadini. Platone e Aristotele muovevano dal particolare all’universale per individuare la migliore forma di governo, la migliore norma, la migliore struttura organizzativa, la migliore risposta ai bisogni di cittadini. Il motore di questa speculazione filosofica era rappresentato dalla volontà di raggiungere le condizioni ottimali, almeno fino a quando il principio di realtà non è assurto a paradigma generalizzato in nome e per conto del pragmatismo della politica. E’ stato questo il momento in cui ci si è accontentati solo del “possibile”, rinunciando a coltivare ambizioni ed aspirazioni più grandi. Già Machiavelli, del resto, aveva messo in evidenza che con l’età moderna la politica non sarebbe stata più guidata dalla certezza del giusto o dell’ingiusto, diventando essa stessa misura di questa diade e parametro per verificare la capacità di perseguire il bene comune. Figuriamoci nell’era postmoderna nella quale si registra il primato delle interpretazioni sui fatti. Ad orientare la politica da secoli non c’è più il principio “veritas facit legem”, ma quello “auctoritas facit legem”.

Davanti ad una situazione emergenziale come quella che stiamo vivendo in questi mesi chi è l’auctoritas? Chi è in grado di interpretare la volontà generale? Chi stabilisce cosa sia il “bene comune”? Per rispondere a queste domande (tutte legittime e necessarie) si potrebbe ricorrere a Kant, il quale individuava nel consenso la principale fonte della legittimazione ad agire. Ci misureremmo, tuttavia, con i molti ostacoli determinati dalla mutevolezza del gradimento dei politici, dal rinvio continuo delle elezioni, dalla distanza esistente tra volontà popolare e rappresentanza, dal maggiore potere riconosciuto al governo rispetto alle assemblee elettive (il contrario di quello che dovrebbe accadere in una repubblica parlamentare), ma anche dalle differenze presenti tra il piano della deliberazione nazionale e quello della deliberazione territoriale. Per usare un’espressione cara al filosofo tedesco Sternberger, si potrebbe dire che il problema è stabilire se in questo momento stia prevalendo più la politica come “istituzione” o più la politica come “intenzione”. Seguendo la prima traiettoria si valorizzano concetti come la “polity” e la “politics”.

Seguendo la seconda traiettoria, invece, si recupera il valore della “policy”, ambito semantico che ha insito in sé l’idea strumentale della politica come mezzo e non fine. Così argomentando, è più agevole comprendere i limiti di un approccio che non sappia coniugare metodo e merito. Concentriamoci sul metodo.

Il sistema politico prima dell’arrivo del coronavirus era già affetto da una grave crisi di rappresentatività, pilastro con la governabilità di tutte le democrazie liberali. Sono almeno due le criticità da evidenziare. La prima: nonostante i ripetuti appelli alla coesione nazionale rivolti dal Capo dello Stato, consapevole più di altri del bisogno di una risposta politica eccezionale a fronte di una situazione drammatica e fuori dal comune, è mancato (almeno finora) un vero dialogo tra maggioranza e opposizione. Dialogo che avrebbe creato le condizioni per il recupero delle proposte migliori, anche vista la necessità di prospettare soluzioni differenziate in base alle specificità dei singoli territori regionali. Il fatto che alcuni governatori abbiano deciso di muoversi in autonomia nasce anche dall’esigenza di superare le difficoltà dovute alla mancanza di un costruttivo e civile confronto tra i partiti nelle sedi decisionali. Veniamo alla seconda criticità. La gestione della crisi, almeno fino al momento dell’avvio della transizione dalla fase 1 alla fase 2, ha generato (a torto o a ragione) la percezione di una marginalità del Parlamento rispetto al Governo, molto più abile e determinato nell’intestarsi la quasi totalità dei provvedimenti varati e nel guidare le danze. Non solo si è riproposto (e non poteva che essere così, visto lo stato di necessità e d’emergenza) il tema del facile ricorso a decreti legge e voti di fiducia, da più parti è stata messa in evidenza anche la problematicità di una normazione affidata allo strumento del DPCM, ovvero il decreto del presidente del consiglio. Il Parlamento dovrebbe esercitare una funzione più attiva, di proposta e non solo di ratifica. E’ qui che il metodo intreccia il merito. Il coronavirus poteva essere l’occasione per correggere alcune distorsioni del modello della democrazia rappresentativa. A tal fine, negli ultimi anni, sono state messe in campo due soluzioni. Entrambe naufragate o indebolitesi un po’ per le scelte operate dall’elettorato attivo, un po’ per la non praticabilità dal punto di vista tecnico di certe proposte. Il riferimento è da un lato al referendum costituzionale del 2016 e dall’altro al modello della democrazia diretta. Il coronavirus poteva rappresentare, altresì, l’occasione per un cambiamento radicale del sistema politico. Invece no. Stiamo assistendo alla riproposizione di vecchi schemi, come dimostra il dibattito sul Mes. L’elenco è lungo: sfruttamento dell’emergenza per consolidare il proprio potere o quello del proprio partito; uso di narrazioni obsolete ed inadeguate rispetto allo stato d’animo della quasi totalità dei riceventi in bilico tra sottovalutazione e sopravalutazione; divisioni interne alla maggioranza e dentro i singoli partiti; marce indietro in nome della real politik e del mantenimento dello status quo con l’intento quindi di trasformare la debolezza in forza; tatticismi per sparigliare le carte e comprare tempo, evitando di finire schiacciati dalla forza elettorale dei propri alleati o dei propri concorrenti. Siamo sicuri che è quanto vogliono i cittadini e soprattutto siamo sicuri che è ciò di cui il Paese ha bisogno? Non è sostituendo un pezzetto di maggioranza con i voti di un partito attualmente all’opposizione che si può mettere in cantiere un piano organico, strategico, strutturato nell’interesse della ripartenza dell’Italia. La politica capisca una volta sempre che servono azioni straordinarie e lungimiranti. È indispensabile il contributo di tutti e non solo di una parte per assolvere a quella funzione rifondante di un Paese che rischia di entrare in una delle emergenze più grandi dal punto di vista economico e sociale.

I partiti comprendano la differenza che esiste tra vivere e sopravvivere. Il futuro è un compito.

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