Ho sempre ritenuto poco sostenibile, almeno dal punto di vista empirico, la distinzione tra governi tecnici e governi politici. In una democrazia parlamentare nessun esecutivo, anche se affidato a personalità non provenienti direttamente da partiti e movimenti, può spogliarsi della propria connotazione politica. La legittimazione ad agire per qualunque compagine governativa dipende dal Parlamento, a cui spetta come è noto l’esercizio del potere legislativo. Il problema, semmai, è su quale maggioranza il governo può fare affidamento, quale programma riesce ad elaborare, quale metodo sceglie di perseguire, quanto efficaci sono le soluzioni proposte davanti ai principali problemi dei cittadini. Tutto ciò vale in generale, ma rileva ancor di più in presenza di una situazione emergenziale come quella che stiamo vivendo. Emergenziale dal punto di vista sanitario, economico e sociale.Situazione in cui metodo e merito si fondano in un tutt’uno. In cui visione e strategia diventano facce della stessa medaglia. In cui la logica incentrata sulla comunicazione delle sole intenzioni (l’annuncite!) soccombe davanti alla necessità di far emergere il pragmatismo delle realizzazioni e la misurazione degli effetti dei singoli provvedimenti.
Ai fini dello svolgimento di questo ragionamento pesa meno di quanto si possa immaginare il fatto, pur rilevantissimo a livello costituzionale, che il governo non sia organo eletto, ma nominato dal Presidente della Repubblica. L’incarico viene dato, infatti, dopo una consultazione con i partiti che siedono in Parlamento. Al Colle salgono i leader politici e i rappresentanti dei gruppi parlamentari che si impegnano a votare la fiducia al governo che sta per nascere. Sgombriamo quindi il campo da un primo possibile equivoco: qualsiasi alternativa all’attuale esecutivo, anche se a guidare il governo fosse una personalità dal profilo tecnico, sarebbe pur sempre espressione di una volontà politica, a meno che non vi sia accordo alcuno tra i partiti. Ciò che potrebbe cambiare è, dunque, la natura del governo.
Potrebbe accadere che si passi da una maggioranza quadripartitica -il primo ed il secondo partito in Parlamento per forza numerica (stando almeno ai risultati delle elezioni di due anni fa) ed i movimenti di Renzi e del duo Bersani-Speranza- ad una più variegata. Operazione che richiederebbe anzitutto l’apertura di una crisi parlamentare o extraparlamentare, come è avvenuto l’estate scorsa dopo la decisione di Salvini di staccare la spina al governo gialloverde. Il punto è proprio questo: chi tra i Cinque Stelle, il Pd, Italia Viva e Leu decide di aprire la crisi? Attenzione: parliamo di apertura della crisi e non di attività di destabilizzazione del governo secondo strategie mediatiche già in atto. Nella maggioranza ci sono molte divergenze su come approcciarsi alle questioni che hanno una ricaduta diretta sull’Unione Europea. Tra il partito di Di Maio (spaccato al proprio interno) e quello di Salvini si registrano vedute comuni, specularmente a quanto, per ragioni opposte, avviene tra il partito di Zingaretti e Franceschini da un lato e quello di Berlusconi dall’altro. Non è un caso che Conte abbia rilasciato ieri un’intervista a Il Giornale per dire no a governi tecnici e rivendicare alla politica il diritto di decidere. Appunto, alla politica. Sempre che ci si intenda sul significato di questa parola di cui non sfugge l’ampia portata semantica.
Il premier punta al dialogo con quella parte del centrodestra che egli considera più compatibile con il proprio modus operandi, visto che ha definito l’atteggiamento di Forza Italia “costruttivo”. Possibile sottinteso di questo ragionamento: se si sfilano Renzi e/o una parte dei pentastellati, c’è sempre la carta degli azzurri, quella carta che nelle settimane prima del contagio da coronavirus gli analisti politici avevano definito con l’etichetta impegnativa di “responsabili”. Una data utile a capire cosa potrebbe accadere nelle prossime settimane è quella di giovedì prossimo quando si terrà un Consiglio decisivo per le sorti dell’Europa. Come noto, ci sarà un negoziato sul cosiddetto Fondo Salva Stati e sul Recovery Fund. Conte ha spiegato che punta ad un provvedimento diverso dall’attuale Mes, ma la partita è complessa. Egli deve fare i conti altresì con l’atteggiamento del Movimento, il quale, nonostante sia consapevole che un’alternativa a Conte significherebbe entrare in un contesto assai rischioso, non intende farsi scavalcare sull’Europa né da Salvini, né dalla Meloni. Detto in altri termini, gli equilibri sono saltati proprio perché i partiti di maggioranza ed opposizione a Strasburgo si sono espressi in modo difforme rispetto all’assetto politico nazionale. Era già capitato, sempre in Europa, con la formazione della cosiddetta “maggioranza Ursula” che indebolì ulteriormente il governo Cinque Stelle-Lega. Se da un lato, dunque, la politica si muove su questo binario e con questa logica, dall’altro cittadini, famiglie, imprese maturano e manifestano un disperato bisogno di prospettive solide, di governabilità piena (pilastro della democrazia insieme alla rappresentanza), di certezze politiche, di liquidità e lavoro.
Si sta per giocare una partita molto delicata: quella del contrasto ad ogni forma di disuguaglianza. Divari tra ceti produttivi. Tra lavoratori dipendenti ed autonomi. Tra Nord e Sud. Tra chi ha ingranato la marcia della digitalizzazione e chi sconta ritardi atavici. Cambiare un giocatore per farne entrare un altro non allunga né i tempi della partita, né fa fare automaticamente più goal alla squadra. Delle due l’una: o Conte neutralizza i rischi connessi al copione adoperato dagli sceneggiatori del film “Io speriamo che me la cavo”, trovando le risorse idonee a farsi sostenere da una maggioranza ampia e solida disposta a sviluppare una strategia a medio e lungo termine e ad intestarsi senza reticenze la responsabilità delle decisioni assunte in questo momento, oppure (escludendo l’ipotesi di elezioni anticipate difficili da tenere anche per evidenti ragioni logistiche) non resta che un governo di solidarietà nazionale. Ma in questo caso, per favore, non chiamatelo governo tecnico. Sarebbe il più politico dei governi politici.