Il coronavirus ha fermato l’Italia. E se l’emergenza sanitaria continua a restare la priorità assoluta, tra i provvedimenti - oltre a chiusura di scuole e restrizioni negli uffici pubblici -, presi per contenere i rischi di contagio, c’è anche la sospensione di tutte - o quasi - le attività di spettacolo.
Cosicché se strade, stazioni e aeroporti ci appaiono come luoghi sempre più desolatamente deserti, i teatri seguono a ruota con delle conseguenze che non incidono solo sulle abitudini di svago della popolazione, ma anche e soprattutto su una economia che spesso si tende a trascurare, se non proprio a ignorare.
Tutta la giornata di ieri è stata un susseguirsi di comunicati su cancellazioni, rinvii, interventi di associazioni di categoria, appelli ai competenti ministeri che hanno ulteriormente scandito una situazione di emergenza indubbiamente fuori dall’ordinario. Si è fermata la musica, il teatro lirico, quello di prosa e persino le reti televisive hanno dovuto prendere delle contromisure disponendo l’eliminazione del pubblico in sala nelle trasmissioni. Il che significa che, a partire da oggi, solo le puntate già registrate potranno mostrarci degli studi con le platee affollate.
Proviamo allora a fare un po’ di conti per comprendere meglio la portata del problema. Secondo i dati forniti dall’Assomusica, fino ad oggi il coronavirus ha bruciato 12,5 milioni di euro in biglietti rimasti invenduti oltre ad altri 25 milioni di mancato indotto nei luoghi delle manifestazioni penalizzate dalla psicosi del virus. In generale è stata registrata una flessione del 30 per cento sugli incassi al botteghino, ma si tratta ovviamente di un «bollettino di guerra» incompleto: la chiusura totale conseguente al provvedimento del governo non potrà che aggravare ulteriormente questo bilancio. Ed è appena il caso di ricordare che l’industria italiana della musica dal vivo occupa ben sedicimila addetti.
Ancora più grave la crisi per il mondo delle Fondazioni liriche, i cui bilanci, tra l’altro, sono tenuti a rispettare i criteri virtuosi della cosiddetta Legge Bray. Se la paura del virus - per restare in Puglia - ha decimato il pubblico del Petruzzelli alla «prima» della Adriana Lecouvreur, la sospensione ha indotto l’associazione di categoria a rivolgere un appello al Mibact affinché non solo quelle regole severe si attenuino in funzione dell’emergenza, ma anche perché vengano concessi finanziamenti straordinari. E non è certo un pianto greco, considerato il costo delle produzioni liriche che in molti casi, pur già allestite, si sono trasformate in dei costi secchi che ora tolgono il sonno ai soprintendenti. Stessa situazione per tutte le compagnie di prosa che ora si trovano a dover sospendere le loro tournée per le quali ogni data cancellata è un vero e proprio colpo al cuore.
Le cose cambiano per quanto riguarda le sale cinematografiche, che dopo l’abbrivio portato ai primi incassi dell’anno da Checco Zalone, nelle ultime due settimane avevano già visto crollare gli incassi di circa il 60 per cento. È vero, alcuni dei titoli più attesi - pensiamo al Verdone pugliese - hanno rinviato il debutto, ma gli esercenti hanno scelto di restare aperti. Una furbizia? Non proprio: il decreto prescrive una distanza di almeno sessanta centimetri tra uno spettatore e l’altro, cosicché in molti casi, nelle sale cinematografiche, si è deciso di lasciare due poltrone libere tra un posto e l’altro. Così facendo, si riuscirà a non sospendere le programmazioni, pur potendo contare solo sul trenta per cento delle capienze tradizionali. Le coppie però sono avvisate: anche esibendo... il certificato di matrimonio, non potranno vedere i film assieme, ma dovranno rispettare le distanze di sicurezza. I film mano nella mano solo davanti alla tv di casa, per trovare il brivido di una nuova trasgressione. Nel frattempo, se le sale restano aperte, slittano i festival e lo sanno bene i pugliesi che dovranno rinunciare - ma solo per ora - al Bif&st, in attesa di conoscerne le nuove date. In queste pur necessarie restrizioni - che continuano a ricordarci le misure adottate a Bari nel 1973, in occasione del colera - si salvano solo le librerie, che annullano le presentazioni, ma pur vendendo meno del solito restano aperte e chissà che, in un’epoca in cui si legge sempre meno, il coronavirus non possa indurre più di qualcuno a riscoprire il piacere di dedicarsi a un buon libro. A cominciare da quei giovanissimi che, approfittando della chiusura delle scuole, già ieri affollavano i tavolini di numerosi bar dove, a quanto pare, la vita per loro continua più regolarmente. Fosse che il coronavirus attecchisce di più nei luoghi di cultura?