Quasi tutti i governi, in Italia, sono moribondi già nella culla. I neopresidenti del Consiglio di solito non fanno in tempo a recitare la formula di giuramento davanti al Capo dello Stato che già comincia il tiro al piccione, seguito, nell’ordine, dal totocrisi, dal totogoverno e dal totopremier. Questa liturgia va in onda anche quando le maggioranze sembrano, sulla carta, più solide del granito e quando gli inquilini di Palazzo Chigi appaiono, nelle interessate interviste dei big alleati, più blindati e sicuri di Stalin (1878-1953) al Cremlino. Figuriamoci, allora, quale dev’essere lo stato d’animo tra ministri e governanti vari quando le coalizioni nascono per caso o iniziano a beccarsi già prima di presentarsi alle Camere per il voto di fiducia. Di certo le giornate non trascorrono tranquille, basta un nonnulla per provocare ansie e agitazioni, e poi trappole e imboscate in politica, specie in Italia, sono pane quotidiano.
Le avvisaglie, le spie di ogni navigazione tribolata non hanno bisogno di particolari atti formali per esplicarsi. Quasi sempre si manifestano nel linguaggio, nella terminologia, nel lessico particolare che caratterizza la schermaglia politica.
Il primo ad annunciare il benservito a un governo prima che il suo capo assumesse la potestà della carica fu Alcide De Gasperi (1881-1954). Siamo sul finire del 1953. Il centrismo democristiano impersonato dallo statista trentino non attraversa un periodo felice. Le correnti dc non sono un esempio di coesistenza tranquilla. Il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi (1874-1961), prende di petto la situazione e affida, di testa sua, senza cioè consultare il partito di maggioranza relativa, al dc Giuseppe Pella (1902-1981) l’incarico di formare l’esecutivo.
È il primo governo tecnico della storia repubblicana, che in quei giorni viene definito «governo amministrativo». Ma sarà un’altra l’aggettivazione che consegnerà agli storici, agli studiosi, il governo Pella: «governo amico». «Governo amico», infatti, è la formula che brevetta De Gasperi in un articolo su La Discussione (settimanale dc) per prendere le distanze dalla creatura appena partorita. Inutile aggiungere che un governo subito bollato come «amico» si reggerà in piedi solo per pochi mesi, trafitto dai siluri diretti e indiretti partiti dalle trincee delle correnti democristiane.
Ma il governo Pella, oltre a nascere con il bollino poco rassicurante di «governo amico», si distingue anche per il fatto di essere accompagnato da un’altra bollinatura coassiale all’instabilità politica: «Appoggio esterno». L’esecutivo formato da esponenti dc e indipendenti di area centrista si regge solo grazie all’«appoggio esterno» di liberali e monarchici. Davvero poco per immaginare lunghe traversate.
Da quegli anni la dizione di «appoggio esterno» cambierà significato: anziché voler dire sostegno, vorrà dire disimpegno, o principio di disimpegno. Anziché voler dire «lealtà» filogovernativa nonostante la rinuncia agli incarichi ministeriali, «appoggio esterno» vorrà dire inizio delle ostilità parlamentari, preavviso di guerriglia nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, segnali di burrasca prossima ventura.
Matteo Renzi non è De Gasperi e Giuseppe Conte non è Pella: troppo diversi sono i protagonisti di ieri e di oggi e troppo diverse sono le situazioni tra le due epoche per immaginare parallelismi o abbozzare similitudini. Ma non c’è dubbio che quando rispuntano formule fatidiche tipo «appoggio esterno» - e chissà se non verrà ripescata a breve pure la locuzione di «governo amico» - il barometro politico complessivo non volge al bello, a dispetto, nel caso attuale, di un inverno meteorologico tutto sommato primaverile.
L’unica cosa certa è che, oggi, nelle intenzioni di chi le evoca, sia la prospettiva del «governo amico» sia l’ipotesi dell’«appoggio esterno» non contemplano il traguardo del voto anticipato, mossa piuttosto azzardata, che potrebbe rivelarsi un boomerang per i suoi autori. Anche perché mai come oggi l’attaccamento allo scranno parlamentare è a prova di bomba atomica. Tra tagli dei posti in Camera e Senato e probabili sconvolgimenti elettorali, la riconquista del titolo di onorevole e di senatore appare sempre più complicata, per non dire improbabile, per tanti.
Ma se nessuno vuole scottarsi le mani attentando alla legislatura, la stessa cosa non si può dire a proposito del governo che, come sopra detto, è strutturalmente esposto, come ogni governo, agli sgambetti di quanti operano per fargli le scarpe.
Il presidente Mattarella ha fatto intendere che non asseconderà giri di valzer in materia di maggioranze. Renzi lascia trapelare di non voler puntare a ribaltoni clamorosi, ma a novità significative nella cabina di regia o nella linea di Palazzo Chigi. Per ora l’ex premier si limita, tra una smentita e una controsmentita, a ipotizzare il ritiro della delegazione ministeriale di Italia Viva, non escludendo il più blando «appoggio esterno», ma sotto sotto il suo obiettivo è di sparigliare il campo, vedere quello che succede, mettere tutti in difficoltà sul tema concreto della prescrizione, e utilizzare al massimo il suo potere di coalizione e interdizione.
Non è facile governare in queste condizioni, che sembrano accoppiare il peggio della Prima Repubblica (la litigiosità endemica) e il meglio della medesima (l’ancoraggio alle migliori tradizioni e culture politiche occidentali). Non è facile governare anche perché si avvicinano scadenze decisive (tra due anni si vota per il Quirinale) e poi sul tavolo ci sono, oggi, dossier (dalla giustizia alla politica fiscale) su cui le contrapposizioni e i contrasti si moltiplicano di giorno in giorno.
E, comunque, stanno ritornando in massa le pratiche, i riti e i fantasmi del passato, annunciati da un vocabolario che veniva dato frettolosamente per sepolto: «appoggio esterno», «governo amico», e presto vedrete, «verifica», «rimpasto» e via primarepubblicheggiando.
In fondo, nulla meglio del linguaggio della politica rivela, più di un termometro, lo stato di salute di una nazione. Infatti, la febbre italica è ritornata a salire.