Alla fine il governo giallorosa nascerà, anche se, alla luce dei continui recenti colpi di scena, il rischio di un aborto improvviso non va escluso. Ma una cosa appare chiara, al termine di una trattativa più estenuante di una corsa di montagna. Qualunque sarà la conclusione del negoziato M5S-Pd, col relativo assetto ministeriale, il precario tasso di instabilità del sistema politico pare destinato a prolungarsi ancora. La battaglia sui ministeri tra pentastellati e «dem» potrebbe lasciare sul campo un folto numero di delusi e disillusi, per non dire morti e feriti, pronti a rendere pan per focaccia. Il che potrebbe complicare il cammino del nuovo esecutivo, anche se l’istinto di conservazione della maggioranza dei parlamentari costituisce il vero baluardo di ogni legislatura.
Tutto ruota, tuttora, attorno al concetto di discontinuità. Il Pd di Nicola Zingaretti, che ha accettato a fatica la permanenza di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, vorrebbe che Luigi Di Maio non occupasse la casella di vicepremier, già occupata nel governo con Matteo Salvini. Il Pdi si oppone a Di Maio vicepremier anche perché ritiene che il M5S sia già rappresentato al massimo livello nell’esecutivo, attraverso la premiership di Conte che, secondo Zingaretti, è a tutti gli effetti il leader dei grillini. I pentastellati vorrebbero che i dem rinnovassero la rosa rispetto ai nomi già presenti nelle compagini guidate da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Ma anche nel Pd c’è chi invoca un ricambio radicale nelle poltrone ministeriali.
Specie questi ultimi giorni della trattativa per il Conte-due hanno accentuato una tendenza che già si era manifestata da tempo: la subalternità, in alcuni casi l’assoluta irrilevanza dei programmi rispetto agli organigrammi. Intendiamoci. Anche in passato i nomi dei futuri ministri contavano più dei progetti in cantiere, ma le scelte da compiere non apparivano una questione di serie B. Col passare degli anni, la questione distributiva degli incarichi di governo ha assunto un peso sempre più rilevante, aggravando a dismisura il lavoro degli sherpa e dei negoziatori vari. Neppure un riconosciuto misuratore del potere come Massimiliano Cencelli, padre del celebre omonimo Manuale, avrebbe vita facile.
La lotta per un posto di governo è sempre più aspra, così come la gara per uno scranno parlamentare. E se, come sembra, la prospettiva dei prossimi anni sarà quella di un sistema elettorale completamente proporzionale, non ci sarà mastice che terrà. I governi dureranno molto meno di dieci mesi (l’esistenza media degli esecutivi della Prima Repubblica). Infatti. Nella Francia della Quarta Repubblica, quella precedente all’arrivo del generale Charles De Gaulle (1890-1970) al potere, i governi sopravvivevano tre-quattro mesi, poi scattava la crisi. La «ricreazione» cessò con lo sbarco del Generale all’Eliseo, ma nel frattempo il Paese rischiò il disastro socio-economico.
Auguriamoci che il futuro governo italiano non indebolisca i già deboli pilastri della governabilità, che sono fondamentali anche nell’interlocuzione con l’Europa. Altrimenti si potranno, tutt’al più, risolvere le crisi di governo, ma non le crisi di sistema.