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Non basta parlare l’inglese per essere un bravo maestro

 
Gino Dato

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Gino Dato

Prima di ogni apprendimento, la scuola deve rimanere presidio e palestra di educazione alla diversità. Agli insegnanti toccano compiti assai delicati di educazione multiculturale

Venerdì 22 Febbraio 2019, 15:36

«Guardate quanto è brutto…». E per rafforzare il pubblico ludibrio il maestro avrebbe costretto l’alunno di colore a restare immobile, postura rivolta verso la finestra, con le spalle alla classe. Un episodio simile sarebbe accaduto anche in un’altra aula della stessa scuola elementare di Foligno.

Vittima la sorellina. I due casi, però, sono sfuggiti al controllo coercitivo e ora fioccano accertamenti, inchieste disciplinari, interrogazioni parlamentari. E polemiche. L’insegnante si difende parlando - inverosimilmente - di un «esperimento sociale». Vorremmo augurarci che questa mostruosità non sia accaduta, ma intanto ci spinge a chiederci proprio quali possano e debbano essere le pur comprensibili sperimentazioni che si vogliano lanciare nel consesso di una «classe» di giovanissimi, magari di formazione e culture diverse in una età multiculturale.

La storiella del brutto anatroccolo del resto non è nuova, ha tormentato la nostra infanzia, in particolare quella dei più (dis)graziati e sfigati, e sembra uscire dalle atmosfere scolastiche di un tempo, quando la pratica dello stigma e della differenza fin nelle aule strutturava forme aperte di distinzione culturale, di riprovazione sociale e di pubblico ludibrio al cospetto della comunità di giovani. Chi non ricorda la prima domanda dell’insegnante: che fa tuo padre?
Anche le bacchettate o l’invito a lasciare l’aula o a restare dietro la lavagna o inginocchiati sui ceci erano, oltre che misure punitive, un «esperimento sociale» di ricerca del primato e del confronto, manipolato da un genere di docenti non educati al mondo della complessità e che per fortuna appartengono a un’età andata.

Le classi si sono livellate, le differenze smussate, il corpo docente è preparato alla complessità e la scuola dovrebbe essere la prima palestra di democrazia. Ma in una società diventata un melting pot, nel clima dei barbari alle porte, malèfici sopravvivono i pregiudizi, che rimangono il più resistente ostacolo a una società aperta, soprattutto quando, sia pure inconsapevolmente, diventano metro di giudizio del reale e del diverso da noi. Da pregiudizi e preconcetti prendono corpo mostri come il disprezzo dell’altro, la non tolleranza, la xenofobia, il razzismo.
Sicché, prima di ogni apprendimento, la scuola deve rimanere presidio e palestra di educazione alla diversità. Agli insegnanti toccano compiti assai delicati di educazione multiculturale.
A loro si richiedono, oltre a questo allenamento, competenze particolari: essere pronti a togliersi gli occhiali culturali, quelle lenti deformanti che ci fanno guardare agli altri e comunicare attraverso modalità che sono soltanto nostre ma che non rispettano le loro.
Ai docenti, non solo, ma ai manager, ai diplomatici, ai militari, un po’ a tutti noi che ci mescoliamo con le altre razze, non basta parlare le lingue, l’inglese, masticare le pedagogie e le scienze della formazione, quanto acquisire una competenza comunicativa interculturale: per comprendere gesti, mimica, posture, usanze di chi è diverso da noi. E, soprattutto, per accettarlo.

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