Ci si chiede. Come mai quello italiano è l’unico governo, in Europa, a godere del 60 per cento del gradimento popolare, mentre nel resto del Continente quasi tutte le coalizioni al potere non superano il 50 per cento dei consensi? La risposta è semplice. La maggioranza parlamentare gialloverde, oltre ad essere di lotta e di governo, è formata da forze politiche che, altrove, non siglerebbero mai un’alleanza e forse avrebbero difficoltà pure a consumare insieme una colazione alla buvette di Montecitorio. In qualsiasi altro momento storico, in Italia, i Cinque Stelle e i leghisti si ritroverebbero o al governo o all’opposizione, giammai insieme. E forse si verificherebbe la stessa cosa se un analogo scenario si materializzasse in Europa.
Ma siccome siamo in Italia e siccome Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono riusciti a sottoscrivere un contratto, il loro binomio esprime e garantisce vasti strati della popolazione, sia sul piano sociale sia sul piano geografico o geopolitico. Di qui la tenuta della diarchia gialloverde nei sondaggi odierni, anche se il test elettorale europeo in programma a maggio potrebbe incrinare il clima di soddisfazione litigiosa in cui convivono i due dioscuri. L’unico mastice che tiene insieme il bicolore guidato da Giuseppe Conte è l’anti-europeismo, anche se in politica estera la linea (moderata) del presidente del Consiglio è alquanto diversa dalla strategia (radicale) dei suoi due vice. E pure i ministri di Esteri ed Economia non possono essere certo arruolati tra gli ultrà anti-Macron o anti-Merkel. Anzi, c’è da scommettere che ogni qual volta Di Maio e Salvini aprono bocca sulle questioni internazionali, i colleghi Enzo Moavero Milanesi e Giovanni Tria fanno il segno della croce sperando in un intervento provvidenziale e riparatore da parte dell’Altissimo.
Il caso Germania prima e il caso Francia adesso dimostrano che è in atto una gara, tra i due azionisti del governo Conte, su chi è più duro nei confronti dell’Europa. E dal momento che Di Maio e Salvini non hanno mai smesso, dal 4 marzo scorso, di fare campagna elettorale - il che contribuisce a mantenere ad alti livelli la popolarità dell’alleanza -, è da mettere in conto, da oggi fino a maggio, un’ulteriore intensificazione dei toni anti-europei, anti-francesi e anti-tedeschi. Lo stesso Conte ieri ha alzato la voce con i francesi.
In una situazione, per così dire, normale, le opposizioni prenderebbero atto dell’anomalia italiana e si attiverebbero per contrastare la spartizione elettorale tra grillini e salviniani. Ma le opposizioni appaiono più frastornate di Gonzalo Higuain dopo un errore dal dischetto, anche perché nel ruolo di governatori ed oppositori di sé stessi, Di Maio e Salvini non temono la concorrenza.
Potrebbe essere l’europeismo, ossia l’atto di fede nell’Unione Europea, il vero collante delle minoranze. Ma la prospettiva, a parecchi maggiorenti del Pd e di Forza Italia, non risulta assai allettante, perché potrebbe esporre i due partiti un tempo firmatari del Patto del Nazareno al rischio di passare per tifosi acritici dell’Ue, che oggi - direbbero gli esperti di marketing - non rappresenta di sicuro un brand paragonabile alla Ferrari (numero uno al mondo).
Deriva da questo singolare principio di precauzione - oltre che dalla diffidenza reciproca e dai calcoli di carriera degli aspiranti leader - la strategia dell’attendismo e la voglia di temporeggiare che oggi caratterizzano le opposizioni.
È vero. Oltre che divise da ragioni, diciamo così, di governance, le opposizioni sono divise anche da questioni di merito, di contenuto. Ma se la comune posizione anti-europea si è rivelata un buon argomento per congiungere pentastellati e leghisti, anche un comune preambolo pro Europa potrebbe costituire un valido argomento per cementare (sia pure provvisoriamente) un cartello tra le opposizioni.
La scelta sull’Europa è una scelta di campo. Non implica un matrimonio a vita tra i soggetti contraenti. Si può essere compatti sulla necessità di conservare e riformare l’Unione ed essere profondamente discordi sulle politiche specifiche, comunitarie e nazionali.
Si obietta. Però l’europeismo non è più di moda, sposare la causa dell’Unione comporta il rischio di un ceffone in cabina elettorale. Non è, questo, un bel modo di ragionare. Gli eccessi di passione sfociano in tragedie collettive, ma anche i deficit di ideali o i surplus di cinismo producono effetti indesiderati. E poi, guai a concepire la politica, specie nella sua fase pre-elettorale, come una calcolatrice sempre in funzione, anche perché a volte certi strumenti (non) danno i numeri (giusti).
Conclusione. L’opposizione, anzi le opposizioni, in Italia, sembrano dileguate come fantasmi. L’Europa potrebbe dare loro un’opportunità di rilancio, a cominciare dal piano mediatico. Ma sembra prevalere la tattica prudenziale. A conferma, forse, di un detto del moralista francese Simon de Bignicourt (1709-1775): «La debolezza, nelle circostanze delicate, si traveste da prudenza». Ma, aggiungeva un altro pensatore di cui ci sfugge il nome, chi non è mai uscito dai cerchi della prudenza non è mai stato sciocco, ma neppure saggio.