Salvato l'acciaio, puntellato il Pil, tutelato il lavoro, per evitare che la storia si ripeta, in un mix formidabile di farsa e tragedia che Taranto non può permettersi, ora occorre che lo Stato faccia la sua parte, assicurando mezzi, fondi e strumenti. Il diritto all'ambiente e alla salute dei tarantini non diventi uno slogan buono solo per le campagne elettorali.
Sei anni fa la magistratura sequestrò gli impianti dell'area a caldo dell'Ilva perché ritenuti – da una perizia non ancora confutata - fonte di malattie e morti per operai e cittadini. Quegli impianti, dopo l'esproprio governativo compiuto nel giugno del 2013 ai danni della famiglia Riva (che non finirà mai di santificare quel provvedimento, ché l'ha tolta da tutti gli impicci), passano ora ad ArcelorMittal, multinazionale dell'acciaio, chiamata ad investire circa 2 miliardi di euro per rimetterli a nuovo e andare così a bussare alla Procura di Taranto per ottenerne il dissequestro. Il quadro sancito ieri a Roma si chiude con la garanzia che nessun dipendente perderà il posto di lavoro.
Il dossier Ilva non può finire in archivio così, però. Non è giusto per una città che per 50 anni ha ospitato l'acciaieria più grande d'Europa, garantendo coils e lamiere alla Fiat e ad altre fabbriche italiane e subendo fumi ed emissioni incontrollate con la compromissione, urbanistica prima ancora che altro, di un territorio altrimenti bellissimo. E non serve a nessuno, perché altrimenti nel giro di pochi anni ci ritroveremo al punto di partenza, come un gioco dell'oca che il 4 marzo ha portato il Movimento 5 Stelle a sfiorare il 50 per cento dei consensi, eleggendo cinque parlamentari al grido di <Chiudiamo l'Ilva> e ieri sera, nella centralissima piazza della Vittoria, una di quei cinque parlamentari costretta a fuggire, protetta dalla polizia, inseguita dagli insulti e dalle urla di quelli che ormai possono essere considerati suoi ex elettori.
Che l'Ilva non dovesse, né potesse chiudere, era ormai chiaro da settimane. Non c'erano i soldi per garantire altrimenti 14mila stipendi e la promessa riconversione economica ma si è preferito rinviare ogni decisione, con un gioco di rimandi che alla fine non poteva non ritorcersi contro chi lo stava conducendo. Il vicepremier Di Maio, dopo aver siglato l'accordo tra azienda e sindacati, ha annunciato una legge speciale per Taranto, nel tentativo di placare la base del suo movimento, illusa per mesi. La legge speciale per Taranto non solo è utile e necessaria, giacché salvati i 14mila dipendenti dell'Ilva restano i 100mila residenti nel capoluogo e provincia ancora alla ricerca di occupazione, ma doveva essere la pre-condizione dell'accordo di ieri. Si è scelta un'altra strada ma ora altri errori non saranno ammessi, pena l'ulteriore perdita di credibilità di una classe dirigente incapace di guardare al generale, non in grado di affrontare un caso – e il caso Taranto è sui tavoli dei governi italiani ormai dal 2012 – e risolverlo in tutte le sue sfaccettature, dando ai cittadini la sensazione di uno Stato che non prende solamente ma è in grado anche di dare, di mettere a sistema un puzzle che è sicuramente composto da lavoro e produzione, ieri messe al sicuro, ma anche da ambiente e salute che erano i punti che hanno fatto esplodere l'affaire-Ilva. I tarantini sognano di vivere in una città nella quale non si debba correre il rischio di ammalarsi per condotte illecite altrui, peraltro coperte da immunità. Un sogno che ad oggi non si è ancora avverato.