Gira e rigira, la crisi del pallone, a Bari come altrove, è figlia della stasi economica nazionale, della scarsa fiducia sul futuro prossimo venturo. Solo pochi anni addietro, nessuno avrebbe mai immaginato che Inter e Milan, simboli, con la Juve, del calcio italiano nel mondo, avrebbero cercato e trovato padroni stranieri e addirittura extracomunitari. Nessuno avrebbe mai dubitato sul fatto che la famiglia Moratti e la famiglia Berlusconi avrebbero legato, per decenni, il loro marchio di fabbrica alle più blasonate squadre italiane in Europa. Invece, si è verificato l’inatteso, tipo un presidente Usa che elogia la Russia e bacchetta l’Europa.
Persino i Moratti e i Berlusconi hanno chiesto la sostituzione in campo, come succede ai calciatori sfiniti dai crampi. Anche loro, Moratti e Berlusconi, hanno dovuto prendere atto che il possesso di un club pallonaro richiede una barca di quattrini, una barca così esigente da mettere a repentaglio persino i patrimoni di due fra le casate industriali più solide della Penisola.
Se non si trovano i denari del territorio a Milano e a Roma (i giallorossi si sono affidati, da pochi anni, a uno zio d’America), figuriamoci nel resto d’Italia, e nel Sud in particolare. Infatti, dal 2002, sono fallite 153 società calcistiche in tutto lo Stivale.
Chi è così temerario da rischiare il collasso finanziario familiare in cambio del titolo di presidente di una società di calcio? Un tempo succedeva. «Ricchi scemi», così il leggendario Giulio Onesti (1912-1981), nume storico del Coni, definiva i paperoni che si svenavano per i loro sodalizi e capricci pallonari. Forse s’ispirava a questa tipologia umana Alberto Sordi (1920-2003) quando interpretò magistralmente nel film Il presidente del Borgorosso Football Club (1970) la tragicomica figura di un industrialotto autocondannatosi alla rovina pur di recuperare, a colpi di ingaggi di calciatori di grido, la popolarità tra i suoi tifosi.
La questione del pallone, o meglio l’impossibilità di gestire con criteri economici una società di calcio è tutta qui, nell’incompatibilità tra spese e costi, tra aspettative della piazza e programmi (quando sono ragionevoli) della proprietà.
Ovviamente, più è ricco un magnate (kamikaze) che si dà al pallone e meglio è. Ma le tifoserie, tutte le tifoserie, per loro natura, sono incontentabili. Pretendono il massimo, il che, alla fine della storia, induce anche i più danarosi, tra i presidenti appassionati, a disfarsi del giocattolo. Risultato: se va bene, può capitare che il nuovo padrone investa qualche milione di euro in più; se va male, può capitare che il nuovo padrone investa qualche milione di euro in meno, vuoi perché non possiede un bancomat personale vuoi perché, dalla sua carica sportiva, voleva lucrare solo notorietà, visibilità e relazioni importanti.
Sono finiti i tempi in cui la politica suppliva, a modo suo, a eventuali carenze di denaro liquido. Il simbolo di questo sistema era la Roma. Per mezzo secolo Giulio Andreotti (1919-2013) è stato il leader ombra della società giallorossa. Andreotti sceglieva i presidenti ufficiali della Roma, ai quali, possiamo immmaginare, garantiva contropartite d’altro genere. Lo scambio peramanente di favori è saltato con la fine della Prima Repubblica: non si è salvato nessuno, neppure tra quelli più scafati.
Oggi non è più riproponibile il replay della Prima Repubblica. Uno, perché il clima è cambiato. Due, perché la classe politica non è in grado (per fortuna) di assicurare quel do ut des che regolava e reggeva il calcio all’italiana. Neppure il capopartito più potente potrebbe oggi garantire a un «salvatore della patria» calcistica quella rete di protezioni e ricompense tali da indurlo a mettere sul tavolo un pacco di milioni per una squadra.
Di conseguenza, meglio non illudersi troppo. Se il lavoro non si crea per decreto, anche una squadra di calcio non si crea o non si ricrea con una delibera o per volontà di un amministratore pubblico. Bisogna solo avere l’umiltà di ripartire da zero, sperando che qualche «volenteroso» dalla condotta irreprensibile (è l’auspicio per il caso Bari) voglia puntare sull’operazione rinascita. Se così avvenisse, la tifoseria dovrebbe solo ringraziarlo, senza fargli sentire il fiato sul collo per gli acquisti e le cessioni di giocatori. Chi rischia il proprio denaro merita rispetto e va giudicato alla fine del proprio operato, non durante.
Non è un caso che la società più stabile e solida d’Italia sia la Juve. Lo è perché è l’unica azienda calcistica che ha saputo anteporre la legge dei bilanci alla legge dei sogni. Qualcuno dirà: e Cristiano Ronaldo non è un sogno pagato a carissimo prezzo? Bah, più che un investimento per la Champions, l’ingaggio di CR7 evoca un’operazione commerciale e pubblicitaria che, per certi versi, potrebbe persino esulare dal rendimento del fuoriclasse portoghese.
Ecco. Al Bari servirebbe un presidente di bilanci, non un presidente di sogni. Se la tifoseria, se l’ambiente come si dice in gergo, dovesse accettare questo cambio di paradigma (prima i numeri, poi i desideri) potrebbe anche spuntare un Cavaliere bianco che si faccia carico di una storia gloriosa. In caso contrario, se cioè dovesse continuare prevalere la logica dei sogni e delle aspirazioni crescenti, non solo nessun «mecenate» si farebbe avanti, ma se, pure, qualcuno facesse il primo passo, bisognerebbe sùbito sottoporlo all’esame del sangue, onde verificarne la sieropositività a qualche morbo pericoloso.