È uscito «Quanta Strada», primo disco cantautorale di Sally Cangiano, chitarrista e cantautore. Dodici brani in lingua napoletana pubblicati e distribuiti dall'etichetta pugliese Bobo Records, che raccontano vita, emozioni, incontri con altre anime a volte sofferenti. Un lavoro libero, in cui - come racconta lo stesso Sally - «la durata dei brani non è importante, non è assoggettata a logiche discografiche odierne. Ogni strumento è stato suonato da musicisti fantastici che sono stati liberi di metterci la loro personalità, dove gli spazi strumentali hanno avuto la giusta importanza». Sally ha raccontato in esclusiva alla «Gazzetta» il bilancio in musica di cinquant'anni di vita, per far uscire tante cose dal cassetto.
Come nasce la passione per il canto e la musica?
«A casa mia era nell'aria dappertutto, mio padre era un'ex batterista e ha guidato radio private, ho una discografia di circa 5mila vinili. Da piccolo mi accusava di rompere le puntine del giradischi, ma io imperterrito continuavo a usarlo anche quando lui non c'era, e ascoltato di tutto, Raffaella Carrà, il jazz, la musica classica. Poi essendo lui un dipendente Sip, ogni anno ai figli dei dipendenti era concesso scegliere un regalo da un catalogo, e io scelsi la chitarra. Studiata totalmente da autodidatta, alla fine parliamo degli anni '80 e di un piccolissimo paese in provincia di Caserta».
Chitarrista e cantante insieme
«Non mi definisco un cantante, accompagno la chitarra con la voce. Lo strumento mi ha salvato anima e cuore, ero affetto da una grave obesità, è stata la mia cura. Il primo palco è stato a 16 anni, una Festa dell'Unità in un paese vicino. Ma l'incontro che mi ha cambiato la vita è stato quello con un pianista con cui formammo un quartetto jazz. Io avevo 15 anni, lui 60 ed era austriaco, e con un forte accento tedesco mi faceva studiare con lui ogni pomeriggio».
Dopo tanti anni come si fa a mantenere vivo l'entusiasmo di fare musica?
«Io conservo sempre lo spirito del bambino che gioca. Non ho una visione accademica della musica. Mi sono iscritto al Conservatorio l'anno scorso, e mi accorgo che la musica che insegnano è altro rispetto a quello che conosco. Sono uno sperimentatore, ho una chitarra su cui ho montato oltre a due corde originali, due di acustica e due di basso. E su un'altra ci ho messo la cordiera della batteria in modo che quando la percuoto sembri un rullante».
Nei brani del disco racconta tanti sentimenti, e non sempre positivi, come la paura
«Tutti abbiamo sperimentato cos'è la paura. Ho avuto l'esigenza di farla diventare quasi una persona, che a un certo punto si racconta: "Non posso farci niente, mi hanno creato per questo, per spaventare, devo fare il mio mestiere". L'ho esorcizzata così».
Come è nata la collaborazione con Bobo Records, che è pugliese?
«Quando mi sono iscritto al Conservatorio, il mio maestro di chitarra, Pino Mazzarano, di Triggiano (Ba) è diventato uno dei miei migliori amici. Non solo: ho voluto coinvolgerlo nel disco, come arrangiatore, e visto che l'album è in napoletano volevo portarlo un po' fuori dai confini della Campania. Ecco perché mi sono lasciato guidare da lui nella scelta della vicina Puglia».
Concluderei proprio chiedendo cosa significa oggi pubblicare un disco in napoletano, vista la grandissima popolarità che sta riscoprendo su tutto il territorio nazionale
«Il napoletano è stato anche una lingua dimenticata, anche se fino agli anni '60 era la lingua principale delle canzoni. Modugno, Teddy Reno, Renato Carosone non avevano legami con la Campania, ma si sono cimentati tutti. Esisteva il Festival di Napoli, all'estero richiedono le canzoni in napoletano, viene considerata una seconda lingua ufficiale. Io stesso ho dovuto fare tante ricerche. È un patrimonio inestimabile, che non morirà mai».