Domenica mattina eravamo in tanti a Roma. Io arrivavo per ragioni pagane e mentre attraversavamo il grande raccordo anulare, siamo rimasti rapiti dalla fiumana di giovani che sfilava quieta, armata di vessilli e crocifissi mentre ordinatamente lasciava Roma, dopo aver preso parte alla giornata conclusiva del Giubileo dei giovani. 1.000.000 di persone, ha senso riportarne la presenza in numeri, rende meglio la portata.
Ho continuato a ripensare a quell’immagine per tutto il giorno. Un milione di giovani speranzosi e ricchi di fede, giunti a Roma da ogni parte del mondo.
Avrebbe potuto essere l’occasione per invocare forte la pace, per gridarne la necessità di una pace subito. E la bandiera multicolor avrebbe dovuto essere l’unica da sventolare tra le mani, al di là di ogni geografica provenienza.
Ma mentre la «meglio gioventù» era riunita in preghiera a Roma, Gaza continuava a morire nell’indifferenza del mondo o nonostante il tiepido interesse di qualcuno.
Intanto noi tutti proseguiamo le nostre giornate di festa.
I più fortunati godendo di giorni di meritate vacanze, di giornate di sole, cene con gli amici, colazioni a buffet negli hotel stellati, mentre Gaza muore. Difficile non sentirsi in colpa, non sentire di aver profanato la morte, disatteso le speranze, ignorato la fame dei bambini.
Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?
Significa chiedere scusa / chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati, agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate, alle lunghe crepe sul fianco delle strade, / ai bambini pallidi, prima e dopo la morte / e al volto di ogni madre triste / o uccisa!
Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra? / Significa vergognarsi, / del tuo sorriso, / del tuo calore, / dei tuoi vestiti puliti, / delle tue ore di noia, / del tuo sbadiglio, / della tua tazza di caffè, / del tuo sonno tranquillo, / dei tuoi cari ancora vivi, / della tua sazietà, / dell’acqua disponibile, / dell’acqua pulita, / della possibilità di fare una doccia, / e del caso che ti ha lasciato ancora in vita! / Mio Dio, / non voglio essere un poeta in tempo di guerra.
Sono le parole di Hend Joudah, nata nel campo profughi di al-Bureij a Gaza.
Poetessa, scrittrice e sceneggiatrice, pubblicate nel libro: Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, edito da Fazi Editore.
In ogni parola risuona l’eco della perdita, della morte, ma anche la tenacia, la parola usata come resistenza e insieme come tentativo di salvezza.
Le parole dense e ruvide, sanno ancora di vita. Resiste la Sumud, termine che incarna insieme resilienza e determinazione di fronte alle avversità, ma per quanto ancora?
Ecco, se fossi in classe oggi, se dovessi immaginare come iniziare il primo giorno di scuola, lo farei leggendo una a caso di queste poesie perché resti in noi e nei nostri figli quel senso di umanità che appare smarrito. Perchè possa ridestare l’empatia di cui siamo ormai orfani.
La libertà per cui moriamo non l’abbiamo mai sentita.
Lo scrive Haidar al-Ghazali, un ragazzo ventenne, poco più grande di mio figlio.